Paesi come Francia, Germania e Regno Unito hanno adottato misure molto diverse tra loro. Il caso del niqab a Monfalcone rende più urgente per l’Italia trovare un approccio unitario che contemperi la libertà religiosa con le esigenze di sicurezza
La recente vicenda di Monfalcone – che ha visto una dirigente scolastica predisporre una stanza ad hoc per identificare studentesse bengalesi che indossavano il niqab (indumento islamico che copre la testa e l’intera figura lasciando scoperti solo gli occhi) – ha riportato alla ribalta la questione del velo nelle scuole italiane. La preside ha agito per salvaguardare queste ragazze: «Se togliessimo alle studentesse il velo, le perderemmo», ha spiegato.
Condannata all’unisono dalla politica, la decisione è maturata all’interno di un vuoto normativo che ha riacceso i dibattiti tanto sul nodo dell’integrazione quanto su quello dell’autonomia scolastica. In una prospettiva più ampia, la vicenda mette in luce la complessità dei modelli di integrazione europei, che oscillano fra la volontà di tutelare la libertà religiosa e preservare la neutralità delle istituzioni pubbliche.
I modelli possibili
Al netto delle difficoltà di definire con esattezza cosa significhi “integrazione”, Francia, Germania e Regno Unito incarnano tre modelli diversi, collocabili lungo uno spettro che va dall’assimilazione al multiculturalismo. La Francia, storicamente meta di una forte immigrazione, ha un approccio restrittivo verso l’uso del velo nelle scuole, in nome di una concezione rigida della laïcité.
Nel 1994, una circolare del ministero dell’Istruzione chiedeva ufficialmente alle scuole di vietare simboli religiosi “ostentatori”, ritenendoli strumenti di proselitismo in grado di interferire con il normale svolgimento delle attività didattiche. La circolare ha finito per innescare tensioni tra scuole e famiglie, le cui dispute continuarono a essere gestite caso per caso, affidate alla discrezionalità di presidi e insegnanti.
Anche per ovviare a queste difficoltà, nel 2004 Parigi ha adottato una legislazione ancora più stringente, trasformando il divieto del 1994 (che lasciava spazio ad ambiguità) in una norma giuridica vincolante per tutte le scuole pubbliche. Sulla legge del 2004 si fonda poi il più recente divieto del qamis e dell’abaya (indumenti tradizionali maschili e femminili indossati principalmente nei paesi del Golfo), imposto alla vigilia della rentrée scolaire nell’agosto del 2023.
Diversamente dalla Francia, dove il divieto di velo riguarda sia studentesse sia insegnanti, in Germania – altro paese con una forte immigrazione – la proibizione si applica solo alle docenti. Una sentenza del Tribunale Costituzionale Federale del 2003 ha però lasciato la decisione ai singoli Länder, dando luogo a una regolamentazione frammentata.
Successivamente, nel 2015, il Tribunale ha riesaminato la questione, dichiarando anticostituzionale il divieto. Da allora, ogni singola scuola deve valutare se l’uso del velo da parte di una docente costituisca una minaccia per la “pace scolastica”. Il verdetto è stato considerato da alcuni come una vittoria dell’uguaglianza religiosa; mentre altri hanno sottolineato le tensioni che necessariamente si sarebbero generate fra presidi e insegnanti, costretti a risolvere i conflitti da soli e senza un quadro normativo chiaro.
Rispetto a Francia e Germania, il Regno Unito ha tradizionalmente adottato un approccio più flessibile e decentralizzato. Non esiste un divieto nazionale sull’uso del velo nelle scuole; anzi, l’Equality Act del 2010 tutela il diritto di indossare indumenti religiosi in classe, salvo restrizioni giustificate da esigenze specifiche. Tuttavia, nemmeno si tratta di un “diritto assoluto”. La legge specifica che «quando una scuola ha buone ragioni per limitare le libertà di un individuo, le restrizioni sono giustificate». Anche in questi casi le decisioni spettano dunque alle singole scuole.
La via italiana
Pur non avendo una storia di immigrazione paragonabile a quella di Francia, Regno Unito e Germania, oggi l’Italia ha una società sempre più plurale dal punto di vista culturale e religioso. Eppure, nel nostro paese non esiste ancora una legge che regoli in modo organico l’uso di indumenti religiosi nelle scuole, incluso il velo islamico.
Attualmente, la Lombardia è l’unica regione ad aver adottato disposizioni specifiche. Già nel 2015, la Giunta regionale aveva vietato l’accesso a ospedali e uffici amministrativi a chi indossava niqab e burqa. All’inizio di quest’anno, alcuni consiglieri regionali della Lega hanno presentato una mozione per estendere questo divieto alle scuole, sostenendo che tali indumenti sono strumenti oppressivi e ostacolano l’integrazione delle studentesse.
La questione del niqab – riaccesa dal caso di Monfalcone – pone seri interrogativi. Se il principio sacrosanto di libertà religiosa garantisce il diritto di ogni individuo a vestirsi secondo le proprie convinzioni, è certamente lecito chiedersi fino a che punto tale libertà possa estendersi quando coinvolge soggetti minorenni e interferisce con processi di educazione e interazione sociale.
A questo elemento si aggiunge una considerazione di carattere culturale e storico: il niqab non è precetto obbligatorio universalmente riconosciuto nella dottrina islamica. In diversi paesi musulmani, peraltro, è vietato per ragioni di sicurezza: l’Egitto, la Tunisia e, più recentemente, il Kirghizistan, ne sanno qualcosa. Il niqab nel nostro paese è diventato emblema delle tensioni su immigrazione, integrazione, sicurezza e identità nazionale, spesso prestandosi a strumentalizzazioni politiche.
In un dibattito spesso caotico e inconcludente, è opportuno sottolineare che la questione irrisolta del niqab nelle scuole potrebbe finire per penalizzare anche le stesse alunne che lo indossano, esponendole ai rischi di marginalizzazione e stigmatizzazione, con possibili ripercussioni sul rendimento scolastico e sull’integrazione.
Per evitare queste dinamiche la politica italiana dovrebbe interrogarsi sulla necessità di una legge nazionale, chiara e condivisa sul velo nelle scuole, che contemperi la libertà religiosa con le esigenze di sicurezza, tutela dei minori e coesione sociale.
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