È tempo di costruire una tradizione che non sia basata sulla sopraffazione
Ogni anno, nella cittadina di Sedilo, in Sardegna, si celebra la “Festa di Su Puddu“, un evento che consiste nel tentativo dei partecipanti a cavallo di decapitare polli appesi lungo il percorso, in una rievocazione rituale che affonda le sue radici in antiche tradizioni medievali. (ph. Credits ‘La Nuova Sardegna’).
Sebbene molti la difendano come espressione folkloristica e di identità culturale, questa pratica solleva questioni etiche cruciali, tanto sul piano individuale quanto collettivo. Il problema, infatti, non riguarda soltanto l’atto della morte stessa, ma soprattutto l’uso e lo sfruttamento degli animali non umani come meri strumenti di intrattenimento.
Non è solo il sacrificio rituale a essere problematico, ma la concezione dell’animale non umano come oggetto da cui trarre piacere o divertimento, al di là della sua natura e dei suoi diritti.
In molte società, il folklore e le tradizioni sono elementi fondamentali di preservazione dell’identità culturale, ma questa stessa identità deve essere costantemente riesaminata alla luce dei valori morali contemporanei.
La difesa di un comportamento tradizionale che comporta la sofferenza e lo sfruttamento di esseri viventi solleva la questione della compatibilità tra il “preservare” una tradizione e l’adeguarsi al progresso etico.
La ripetizione di rituali che, come nella “Festa di Su Puddu”, sfruttano gli animali non umani come strumenti di intrattenimento non può essere semplicemente giustificata in nome della tradizione, poiché va contro i principi universali di rispetto per tutte le forme di vita.
Non possiamo considerare l’animale non umano come un elemento isolato dal contesto sociale e culturale in cui viene vissuto: il suo utilizzo in pratiche come queste rimarca un atteggiamento antropocentrico che continua a ridurre la sua esistenza a mera risorsa.
Questa posizione non è solo eticamente insostenibile, ma culturalmente regressiva.
Non possiamo invocare la tradizione come scudo per pratiche che, pur radicate in un lontano passato, non sono più compatibili con le esigenze di una società che si definisce evoluta e rispettosa dei diritti. Il concetto di “tradizione”, se non aggiornato alla luce di nuovi principi etici, diventa un ostacolo al progresso della civiltà.
Un altro aspetto che emerge dal dibattito sulle manifestazioni popolari è l’ipocrisia che permea la nostra società. Da un lato, ci vantiamo di una legislazione avanzata, che si presenta come esempio di civiltà rispetto ad altri paesi, dove l’uso di animali non umani in manifestazioni simili potrebbe essere considerato parte integrante di una cultura che non ha ancora fatto i conti con le proprie contraddizioni. Dall’altro, però, continuiamo a giustificare lo sfruttamento degli animali non umani in nome della tradizione, della cultura o del folklore, senza considerare i loro diritti e il rispetto per la loro esistenza autonoma.
La legge si erge come un velo che nasconde una realtà ben diversa: una cultura che, pur proclamando un impegno verso la tutela degli animali non umani, non ha la volontà o la capacità di eliminare le pratiche di sfruttamento più radicate nella sua tradizione.
Questo dualismo tra i valori dichiarati e le pratiche concrete di una società alimenta un senso di dissonanza cognitiva, alimentato dalla convinzione che certi atti, seppur crudeli, possano essere tollerati sotto la protezione del folklore.
Tale ipocrisia si riflette anche nel giudizio che riserviamo ad altre culture o paesi che continuano a praticare manifestazioni simili.
Ci proclamiamo superiori, eppure non siamo disposti a rivedere criticamente le nostre tradizioni quando queste comportano violenza o sfruttamento. È facile condannare l’uso di animali in altri contesti, ma difficilmente siamo disposti ad ammettere che la nostra “superiorità” culturale è, in molti casi, solo una facciata, dietro la quale si nasconde l’intransigenza ad affrontare la realtà del nostro rapporto con gli altri esseri viventi.
Una delle giustificazioni più comuni per la continuazione di rituali come quello della “Festa di Su Puddu” è che i polli utilizzati sono già morti al momento della decapitazione, e quindi non soffrono. Ma questo tipo di argomentazione non solo è privo di fondamento etico, ma solleva un’altra questione cruciale: non è solo la morte fisica o il dolore a essere problematici, ma l’uso stesso dell’animale come oggetto di svago. Quando un animale, morto o vivo, diventa un veicolo per il divertimento umano, si nega la sua natura e si impone su di lui una finalità che esclude ogni considerazione dei suoi diritti e della sua dignità intrinseca. La vera violenza in questo tipo di tradizione non risiede nel gesto finale, ma nel fatto che l’animale venga trattato come un mezzo, piuttosto che come un fine in sé.
Lo stesso vale per i cavalli impiegati nel rituale: anche se non vengono uccisi, sono forzati a partecipare a una competizione che non tiene conto delle loro esigenze naturali, riducendo la loro esistenza a mera funzione per il piacere umano.
La questione, dunque, non può essere risolta semplicemente con la difesa della tradizione.
Se una comunità ha il diritto di celebrare la propria storia e la propria identità, tale celebrazione deve evolversi in linea con i principi di giustizia e rispetto che una società realmente evoluta dovrebbe perseguire. Il progresso culturale non consiste solo nell’innovazione tecnologica o sociale, ma anche nella capacità di riflettere e rivedere le proprie pratiche quando queste sono in contrasto con i valori di compassione, equità e rispetto per la vita.
Tradizioni simili a quella della “Festa di Su Puddu” possono essere trasformate in manifestazioni che celebrano altre forme di abilità o di comunità, senza dover ricorrere allo sfruttamento degli animali.
In definitiva, la “Festa di Su Puddu” solleva una questione fondamentale: quella del nostro rapporto con gli altri esseri viventi e della nostra capacità di evolverci come società.
Non è più giustificabile perpetuare pratiche che causano sofferenza o che sfruttano gli animali non umani in nome di una tradizione che non tiene conto dei principi morali fondamentali della nostra epoca.
Se la cultura è veramente un motore di progresso, allora è tempo di costruire una tradizione che non sia basata sulla sopraffazione, ma su un autentico rispetto per tutti gli esseri viventi e sulla consapevolezza etica. Solo così sarà possibile, finalmente, uscire dalla contraddizione tra il nostro proclamato impegno per i diritti degli animali e la realtà delle nostre azioni quotidiane, rendendo davvero giustizia a tutti gli esseri senzienti, senza eccezioni.
Nadia Zurlo – Responsabile LAV Area Equidi
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