Democrazia come conflitto – Terzogiornale

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In Francia, ammoniva un Napoleone alla vigilia del consolato, la salvezza risiede nell’annientamento dei partiti. Si apre così la lunga stagione della castrazione delle rivoluzioni mediante un fenomeno, chiamato appunto bonapartismo, per cui generali e leader taumaturgici si affermano sostituendosi all’intelaiatura della democrazia rappresentativa. Oggi siamo dinanzi a una realtà diversa. Non sono solo le tradizionali forze reazionarie o dittatoriali a premere per ridimensionare ruolo e spazio della dialettica democratica; sono soprattutto interessi e ceti sociali che, fino a non molto tempo fa, erano parti essenziali dello schieramento democratico, se non libertario: sono la componente professionale e proprietaria del comparto informatico, e un’area popolare e subalterna, che stanno ingrossando le file dello schieramento filo-autoritario. Due comunità alla base del consenso per il presidente americano Trump, e che in Europa sostengono forze di estrema destra. Dunque cosa è successo? E come reagisce la sinistra a un processo sociopolitico che muta radicalmente i termini dello scontro elettorale?

Non sarebbe male ricordare due precedenti di dura critica ai partiti, potremmo dire da sinistra, che ci possono aiutare a focalizzare meglio gli accadimenti attuali. Pensiamo a Simone Weil, con il suo saggio intitolato inequivocabilmente Nota sulla soppressione dei partiti, e ad Adriano Olivetti, con il pamphlet Democrazia senza partiti (edito da Comunità). Stiamo parlando di autori e posizioni lontani nel tempo: il testo di Weil è del 1943, mentre quello di Olivetti è del ’49. Ma in entrambi cogliamo una straordinaria assonanza con quanto ci ritroviamo dinanzi in questi mesi. In particolare, la cosa vale più direttamente per Olivetti, per via del rapporto fra informatica e politica. Se in Weil, infatti, è percepibile un’intensa dimensione etica, che rende il partito un limite alla ricchezza di una partecipazione di ciascuna singola persona alla democrazia, nel grande imprenditore di Ivrea gioca, forse per la prima volta, l’interferenza di logiche e meccanismi indotti dalla calcolabilità di ogni singolo evento nei percorsi decisionali.

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Non a caso, accanto e dietro la truculenta figura del presidente americano, appaiono con ruoli da protagonisti figure altamente rappresentative della Silicon Valley. In sostanza, a spaccare l’Occidente, e a collocare gli Stati Uniti nel campo “orientale” dei regimi autoritari – con un’inevitabile riclassificazione delle categorie e degli schieramenti, sia fra gli Stati sia negli Stati – è la pervasività delle relazioni digitali, che, per la loro natura e le forme di applicazione, si trovano a sovrapporsi alle dinamiche democratiche.

Il buco nero che abbiamo dinanzi, al di là degli aspetti più clamorosi e roboanti degli schiamazzi trumpiani, deve spingerci a capire, in una prospettiva che vede sempre più centrale nella nostra vita la realtà di sistemi tecnologici in grado di processare dati intimi in base ai quali predire scenari e decisioni, come coniugare la vita moderna con l’ambizione di una partecipazione democratica. Scriveva Adriano Olivetti: “Il compito dei partiti politici sarà esaurito e la politica avrà un fine quando sarà annullata la distanza fra i mezzi e i fini, quando cioè la struttura dello Stato e della società giungeranno a un’integrazione, a un equilibrio per cui sarà la società e non i partiti a creare lo Stato”.

Si coglie qui la pretesa di accorciare ogni distanza fra governanti e governati, usando come cassetta degli attrezzi non più l’infrastruttura organizzativa della politica tradizionale, cioè i partiti, ma una forma di connessione – meglio oggi potremmo dire di connettività – che renda possibile un legame diretto fra vertici e base, fra decisori e utenti. L’informatica anima questa suggestione, fornendo ai modelli della pianificazione centralizzata strumenti e opportunità più efficienti e funzionali rispetto alle precedenti esperienze burocratizzate. Come recita un romanzo di grande successo negli anni scorsi, Il Cerchio, di Dave Eggers, “se con i dati sappiamo tutto di cosa pensano e vogliono gli utenti, perché dobbiamo attendere un voto?”. Sembrava un paradosso, ma oggi Elon Musk vuole realizzare proprio questo, quando dice che il suo mandato nel governo americano per semplificare le procedure della pubblica amministrazione è quello di “sostituire le regole con i dati”.

L’intelligenza artificiale sta rendendo pratica sociale comune la predizione dei comportamenti. Ancora una volta, come abbiamo visto nelle due guerre in corso in Ucraina e in Medio Oriente, è il marketing a sviluppare e condividere con gli apparati di sicurezza soluzioni che permettono di profilare milioni di persone, identificandoli per i contributi che possono dare al proprio campo e per i bisogni attraverso i quali possono essere assoggettati. L’unico antidoto a questa deriva è la capacità di riempire esattamente socialmente e politicamente quello spazio che Olivetti e Weil, ognuno per la propria parte, identificavano nel rapporto fra società e Stato.

Torniamo così al dibattito (vedi qui) sul partito come piattaforma di raccolta di interessi e obiettivi anche diversi, sede di conflitto e non apparato uniforme di gestione di mandati istituzionali. Solo riaprendo i cantieri di una forma partito, che possa progettare e orchestrare conflitti sociali nel cuore dei nuovi poteri digitali, attivando e organizzando competenze e interessi, creando comunità consapevoli e capaci di contestare alla proprietà il dominio sulla gestione della potenza di calcolo, ­– solo così si riapre la via che ci permetterebbe di ingaggiare, nel punto più alto dello scontro ideologico sulla democrazia, un contenzioso con i nuovi poteri tecnocratici. Senza una svolta del genere – in grado di dare colore e calore a una società tecnologica che oggi si presenta come un’amorfa plaga a una sola dimensione, quella proprietaria – appare difficile anche soltanto partecipare a questa partita decisiva.



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