Monti: “Il prezzo del gas scenderà, bene acquistarlo dagli Usa”

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«In due anni più sicurezza energetica con il gas statunitense, ma ora bisogna spingere sulle rinnovabili. Nel lungo termine, potrà essere il nucleare a fornire autonomia strategica all’Italia e all’Europa». Nicola Monti, amministratore delegato di Edison, ragiona sulle recenti evoluzioni del mercato dell’energia. I prezzi aumentano, le tensioni geopolitiche pure, e all’Ue occorre pragmatismo per evitare di perdere ulteriore terreno sul fronte della competitività globale.

Siamo a tre anni dall’invasione russa in Ucraina. I valori del gas sono ancora molto elevati. Famiglie e imprese si chiedono cosa sta succedendo.

«Il prezzo del gas ha avuto marcate oscillazioni negli ultimi anni. Dopo essersi ridotto a quota 30 euro, è tornato negli ultimi due mesi sopra i 50 euro. Quest’ultimo rialzo è stato il frutto di una concomitanza di fattori. Primo, l’interruzione del flusso di gas russo che transitava dall’Ucraina. Un canale che serviva i Paesi dell’Europa dell’Est che contribuiva a bilanciare il sistema europeo del gas, che resta tutto interconnesso. Poi c’è stato un altro elemento».

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Quale?

«La riduzione della produzione norvegese. E ricordiamo che la Norvegia è il primo fornitore di gas nella piattaforma continentale. Inoltre, c’è stato un inverno più rigido del previsto nel centro-nord Europa. Ne è derivato che il livello di svuotamento degli stoccaggi a oggi è più forte rispetto al passato. Questi tre elementi hanno creato tensione sul mercato, che si è accorciato. Con le conseguenze sui prezzi finali che abbiamo visto».

Un problema che potrà ripresentarsi?

«Potrebbe, visto che c’è sempre l’indicazione europea secondo cui gli stoccaggi devono essere intorno al 90% di riempimento entro l’estate. Ne deriva che dovremo avere più approvvigionamenti quest’anno rispetto agli ultimi due anni. Poi, con l’inverno che pare essere più mite in questa fase e con la possibilità di una pace fra Russia e Ucraina, che sicuramente includerà un afflusso minimo di gas in linea con gli ultimi periodi, ci potranno essere dei cambiamenti sulla formazione dei prezzi».

Cosa aspettarci?

«Al di là di scenari di pace o guerra che sono difficilmente prevedibili, nel giro di un anno e mezzo arriveranno sul mercato mondiale circa 100 miliardi di metri cubi di gas naturale, nuovo e in forma liquida. Risorse che sono il frutto degli investimenti in corso, in particolare in Qatar e negli Stati Uniti. Questo fattore renderà strutturale un apporto superiore di gas a livello mondiale e potrà ridurre la pressione sul mercato europeo. Nei prossimi 18/24 mesi arriveremo comunque a prezzi più bassi».

In Europa e in Italia si è tornato a parlare di tetto al prezzo del gas e disaccoppiamento dei valori di mercato con quelli all’ingrosso. Può funzionare?

«Il mercato elettrico è europeo, le normative sono europee e anche nell’ultimo pacchetto Clean Industrial Deal non vengono toccati elementi come l’Emission trading scheme (Ets, lo schema di scambio delle emissioni di anidride carbonica, ndr) o il disaccoppiamento, per esempio. In Italia un effetto disaccoppiamento si può effettuare realizzando più rinnovabili. Ancora oggi metà della produzione elettrica deriva dal ciclo combinato a gas che per due terzi dell’anno stabilisce il prezzo di mercato. Ecco perché in Italia in prezzi sono più alti che altrove».

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Esplicitiamo il motivo. Perché?

«Perché abbiamo diversificato meno. Siamo molto collegati al gas. E quando il prezzo si alza, il costo dell’elettricità fa lo stesso. È un tema strutturale che dobbiamo risolvere».

Come?

«Maggiore diversificazione, senza dubbio».

Lo si dice da tre anni.

«Sì, ed è il momento di accelerare sulle fonti energetiche rinnovabili. Un processo che ancora fatica per vari motivi, dalla burocrazia alle autorizzazioni. Nel lungo termine ci sarà poi il nucleare di nuova generazione che darà ancora più potenza al Paese, e all’Europa».

Nel breve termine però cosa serve?

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«Mitigazione dei rischi. Vale a dire, incentivazione delle rinnovabili e contratti bilaterali fra produttore e consumatore su base almeno decennale, che permettono di svincolarsi dalla Borsa elettrica. Con un prezzo fisso c’è da un lato una remunerazione degli investimenti, nel nostro caso, e dall’altro una protezione per il cliente finale, che è più immune dalle fluttuazioni del mercato».

Altri Paesi lo hanno fatto?

«Sì. La Spagna ha un portafoglio molto più mixato e prezzi più bassi. La Francia gode della rendita di posizione sull’energia nucleare. È per questo che quando leggo sui giornali che “Ci vuole un prezzo dell’energia europeo ” sorrido».

Perché?

«Perché non ci sarà mai. Non credo che alcun Paese che gode strutturalmente di un vantaggio competitivo sia interessato a condividere con i partner le scelte di politica energetica e industriale che ha fatto nel passato. Sicuramente aumentare le interconnessioni, che è nell’ottica della Commissione europea, permette di incrementare i flussi e quindi ridurre i divari di prezzo».

Abbiamo parlato di un orizzonte temporale di sussistenza di un biennio. Le bollette preoccupano famiglie e imprese. Mitigazione prima e adattamento poi?

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«È un processo lungo perché se vogliamo mettere a terra gli investimenti sulle rinnovabili questo è il momento per realizzare gli impianti. Poi, nel lungo periodo, a livello di Italia, dobbiamo pensare a un mix più bilanciato».

E nel brevissimo termine?

«La soluzione più rapida è quella di mettere mano al portafoglio, abbassare gli oneri di sistema e la fiscalità generale a beneficio dei consumatori più colpiti. Prendiamo l’Iva, che è ancora al 22%. Si può tornare al 2022, quando fu introdotta un’aliquota del 5%. Più o meno il gettito per le casse dell’Erario rimane lo stesso dal momento che i prezzi sono aumentati, ma per il consumatore c’è un sollievo specifico».

C’è un problema di programmazione?

«Molto spesso ragioniamo sull’emergenza e non sulle questioni strutturali. Inseguiamo il day-to-day ma fatichiamo ad avere visione. Mettendo in campo solo misure tampone con un mercato europeo così esteso non si risolve il problema sottostante».

Visione può significare anche il gas statunitense per ammorbidire la posizione di Washington sui dazi?

«Gli Usa stanno diventando un forte produttore di gas naturale liquefatto e quindi un grande esportatore. Per la bilancia commerciale americana è quindi un vantaggio vendere. Oggi il prezzo del gas statunitense è competitivo in Europa, anche se ha una catena logistica lunga, perché l’indice di prezzo Henry Hub che determina il valore sul mercato spot americano è molto più basso che nel nostro continente».

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Cosa ne deriva?

«Gli Stati Uniti vogliono diventare un esportatore più forte. E noi come europei, una parte di quel gas che sostituirà quello russo, dovremo comunque attrarlo».

Pochi giorni fa il ministro dell’Ambiente, Gilberto Pichetto Fratin, ha parlato di un possibile ritorno al gas russo in caso di pace. È possibile?

«No, non sono allineato con questa posizione. I Paesi europei si sono attrezzati per non dipendere più dalle importazioni dalla Russia e sono orientati a una maggiore diversificazione strategica. Nel nostro caso, abbiamo rafforzato i flussi da alcuni gasdotti, come nel caso dell’Algeria, ma soprattutto abbiamo messo in funzione nel giro di tre anni il rigassificatore di Piombino, che è a pieno regime, e quello di Ravenna, che entrerà in funzione fra poco. Tra questo e una graduale riduzione di consumi per effetto dell’elettrificazione e decarbonizzazione, abbiamo gli strumenti per restare bilanciati e autonomi senza dover ricorrere a nuove importazioni di gas russo».

La transizione energetica è ancora cruciale per l’Europa?

«Non solo. È inevitabile. A livello Ue, tuttavia, essersi posti obiettivi così importanti e così a breve termine come nel primo Green Deal è stato poco lungimirante. I costi dello switch dal gas all’elettrico devono essere incentivati, ma bisogna avere i bilanci statali per farlo. In caso contrario, bisogna avere più ragionevolezza nella gestione del processo. Altre aree, come Usa e Cina, hanno meccanismi di incentivazione che dimostrano di funzionare meglio di quelli penalizzanti della Ue permettendo a questi Paesi di investire più di noi nella transizione».

Cosa servirebbe?

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«Parametri e obiettivi meno stringenti, per esempio. L’orizzonte europeo è chiaro, ma non si sono valutati gli effetti sull’industria manifatturiera. Non solo per via dei costi dell’energia bensì anche sul fronte dello stimolo agli investimenti strutturali per la creazione di batterie elettriche e pannelli fotovoltaici».

Che oggi sono prodotti in larga parte dalla Cina.

«Corretto. Ed è una questione da risolvere in fretta. Bisogna ragionare su come costruire piattaforme manifatturiere che siano europee per competere a livello globale. Serve andare oltre gli interessi nazionali, e pensare a livello paneuropeo. Da un lato, quindi, stimolo all’industria. Dall’altro, spinta su ricerca e sviluppo».

Perché si parla tanto di energia elettrica ma poco di acqua?

«La conservazione dell’acqua è fondamentale, dato che per l’Italia l’idroelettrico è un settore storicamente molto avanzato. C’è un tema critico che è la messa a gara delle concessioni. Noi come segmento abbiamo stimato che gli investimenti da mettere in campo in pochi anni sono pari a 15 miliardi di euro. Oltre alla manutenzione bisogna aumentare efficienza, performance e capacità degli invasi».

Cosa serve?

«L’accumulo di energia si fa o con le batterie elettriche, che sono cinesi, o con gli impianti di pompaggio idroelettrico che attivano le filiere nazionali. Noi siamo interessati a farli nel Mezzogiorno e siamo in attesa dei processi di iter autorizzativo. Questi sono gli investimenti che trainano la manifattura italiana e che dovremmo salvaguardare».

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I data center richiedono acqua.

«Saranno oggetto di investimenti diretti in Europa. Il consumo energetico è vero che è elevato, ma la tecnologia sta migliorando. I nuovi hardware possono arrivare a consumare fino al 90% in meno rispetto a quelle precedenti. E l’Europa può ancora giocare un ruolo nella corsa all’intelligenza artificiale. Il tema del dispendio di energia però è fondamentale».

Quanto?

«Noi oggi in Italia consumiamo circa 300 Terawattora. Nel piano nazionale al 2050 c’è l’ipotesi di raddoppiare il valore a quota 600 Terawattora. Ma quando è stato fatto il piano, circa due anni fa, il vocabolo AI non c’era. È possibile che si debba rivedere al rialzo. Basti pensare che, con il nucleare, la Francia è già adesso intorno ai 450 Terawattora».

L’Italia che ruolo può giocare?

«La politica energetica che deve essere fatta oggi è importante, perché deve essere con un orizzonte temporale ultraventennale. Abbiamo sempre fatto fatica, ma questo è il momento topico».

Quali le priorità del Paese?

«Partiamo da un punto. Già due anni fa abbiamo messo sul tavolo il ritorno al nucleare. Va benissimo investire nelle energie rinnovabili, ma non possiamo avere un parco di produzione elettrica totalmente interrompibile. L’equilibrio migliore si ottiene avendo un 80% di rinnovabile e un 20% di produzione programmabile. Adesso abbiamo un mix di circa il 40% di rinnovabile e il resto gas e importazioni. C’è spazio per raddoppiare il primo fattore, ma non possiamo prescindere dalla programmabilità. E in questo caso non ci sono molte alternative al nucleare. Una fonte che nel lungo periodo potrà incrementare la nostra autonomia».



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