Evitiamo di trasformare l’ufficio in una Guerra dei Roses. I consigli per ridurre lo stress al lavoro dall’esperto di mobbing

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Il conflitto genera stress e lo stress genera conflitto in un circolo vizioso senza uscita. Le incomprensioni al lavoro per Harald Ege, il massimo esperto in Italia sul fenomeno del mobbing. Un estratto del suo ultimo libro “Eristress. Lo stress da conflittualità”, edito da FrancoAngeli nella nostra rubrica domenicale “Futuro da sfogliare”

Ci sono persone a cui piace andare al lavoro, che ci vanno con entusiasmo. Ci sono addirittura persone che non vedono l’ora che finiscano le vacanze per poter tornare sul proprio posto di lavoro. La maggioranza però ci va perché fornisce loro i mezzi economici per vivere e di conseguenza il lavoro costituisce una necessità irrinunciabile. Ecco perché il posto di lavoro è il teatro della maggior parte dei conflitti e fonte di stress, come racconta lo psicologo Harald Ege nel libro Eristress. Lo stress da conflittualità edito da FrancoAngeli di cui vi anticipiamo un estratto.

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Quante volte vi è capitato di trovarvi in mezzo ad un conflitto? Quan- te volte ne siete stati voi i protagonisti e quante volte ne siete stati semplici spettatori? Qual è l’ultimo conflitto che vi torna in mente? Forse quello avvenuto tra le vostre quattro mura di casa? Vostro figlio che non vi ha presentato i voti sperati e che scatena la vostra rabbia perché era- vate convinti che lui invece avesse sempre studiato? O vostra figlia che si ostina a tornare a casa troppo tardi il sabato sera e voi di rimando le impartite prontamente la predica del buon padre di famiglia?! O vostra moglie della quale sospettate un tradimento e voi, di tutta reazione, la mettete sotto processo urlando?! O ancora vostro marito che vi accusa di aver sperperato denaro nell’acquisto di futilità?

Per non parlare del figlio che vi fa saltare i nervi perché, senza nemmeno dirvi nulla, si è fatto fare un bel tatuaggio o perché porta a casa una fidanzata non gradita! Basta lasciar correre liberamente la vostra fantasia. Chi è che non ricorda il celeberrimo film La guerra dei Roses con Michael Douglas e Kathleen Turner, che in modo esagerato (parliamo di Hollywood!) ma pur sempre efficacemente, ci mostra quali limiti estremi può raggiungere un conflitto tra coniugi. È sufficiente dare uno sguardo alle statistiche in materia di divorzi per renderci conto dell’impatto del fattore conflittuale in ambito famigliare (assumendo ovviamente che non si divorzia se felicemente sposati).

Oppure pensate alle innumerevoli situazioni di conflitto che avvengono sulle strade. Il ciclista che si arrabbia perché un automobilista lo ha ignorato e gli ha tagliato la strada. O due automobilisti che si con- tendono un posto auto all’interno di un parcheggio di un supermercato e litigano brutalmente! E non parliamo nemmeno di come può degenerare una diatriba tra due conducenti coinvolti in un incidente! Naturalmente, come spesso accade, tutti i partecipanti pretendono di essere dalla parte della ragione, e per persuadere l’altra parte della propria, non mancano di utilizzare un tono di voce piuttosto elevato.

Chi assiste (come altri passeggeri in macchina o passanti per strada) resta letteralmente scioccato di fronte a questo inasprimento di insulti ed offese. Alcune volte situazioni di contrasto, al loro esordio, appaiono innocenti ed invisibili per poi svilupparsi in veri e propri conflitti. Potrebbe accadere che, nel mentre fate la spesa al supermercato, vi rivolgete ad un’addetta per ottenere maggiori informazioni su un prodotto che intendete acquistare e la risposta che ricevete non vi soddisfa affatto. Quasi inevitabilmente rimbeccate mettendo in dubbio la sua professionalità e la qualità del servizio di tutto il supermercato. Riflettiamo un attimo: qual è il “carico emotivo” che ciascuna parte coinvolta porta con sé in un conflitto? Per riprendere l’ultimo esempio, potrebbe essere che la commessa non ha fatto pausa, o è in procinto di terminare il proprio turno, o ha appena saputo che le è stata respinta una richiesta di ferie.

Leggi anche: Il successo di ogni azienda passa dalla collaborazione. Tutti lo sanno, in pochi ci riescono. Parola di Daniel Coyle

O forse, quella mattina, la sua auto non è partita, ha dovuto prendere i mezzi pubblici ed è arrivata in ritardo al lavoro, o è reduce da un diverbio irrisolto col proprio marito. In questa maniera nasce ed esplode un conflitto che non era prevedibile, e accade che la tensione che ogni protagonista coinvolto porta con sé in un preciso momento di contatto esordisce in discordia. Accade anche che ci ritroviamo testimoni di conflitti che apprendiamo dai mass media. Pensate al litigio in televisione, in un reality, per banalità qualsiasi, o la rissa per una partita di calcio, dopo il fischio dell’arbitro non gradito da una delle parti.

Ma vedete, in questo caso, il mezzo televisivo stabilisce una distanza fisica tra lo spettatore e la situa- zione rappresentata o il luogo del conflitto e ne attenua la forza suggestiva. Dopo tutto possiamo sempre ricorrere al nostro “magico” telecomando e cambiare programma, interrompendo istantaneamente la connessione. È abbastanza risaputo che i dirigenti televisivi sanno che, se vogliono tenere alto lo share, devono puntare a programmi governati dal contrasto tra es- seri umani! Il disaccordo fa audience! Evidentemente le persone vogliono vedere esattamente questo. Nemmeno i rapporti di vicinato sono esenti da conflitti.

Pensiamo all’albero del vicino di casa il quale, sporgendo nel nostro giardino, vi fa cadere le proprie foglie o al fumo del loro appetito- so barbecue che invade la nostra atmosfera o pensiamo al modo di vivere dei nostri vicini proprio improntato alla conflittualità che ci esaspera ogni santo giorno (continuo sbattere delle porte, volume alto di una televisione perennemente accesa o di una radio). I conflitti ci aspettano a qualsiasi angolo ed in modo imprevedibile. E ci ritroviamo immancabilmente ad esserne protagonisti (pensiamo solo ad un’offesa o ad una critica soggettiva), o spettatori o testimoni, in questi ultimi due casi naturalmente senza desiderarlo.

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“Per fare la guerra basta una persona, per fare la pace ne occorrono due” – Jitzchak Rabin

Non esiste un vaccino contro la conflittualità. Il posto di lavoro rappresenta un luogo molto particolare ed indubbiamente centrale. Il posto di lavoro è innanzitutto un luogo inevitabile e necessario per la stragrande maggioranza delle persone. La sopravvivenza economica dipende dal posto di lavoro. Certo, ci sono anche persone a cui piace andare al lavoro, che ci vanno con entusiasmo. Ci sono addirittura persone che non vedono l’ora che finiscano le vacanze per poter tornare sul proprio posto di lavoro.

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Harald Ege – Fonte: profilo Facebook ufficiale

Tutto vero. Ma allo stesso tempo ci sono anche persone (indubbiamente la maggioranza) che vanno al lavoro perché quel lavoro fornisce loro i mezzi economici per vivere e di conseguenza il lavoro costituisce una necessità irrinunciabile, grazie al quale, non solo riescono a garantire i mezzi di sussistenza più basilari a loro ed alle loro famiglie, ma magari anche uno stile di vita più o meno comodo, una bella automobile o una bella vacanza ecc.

Le persone si trovano su un posto di lavoro contro la loro volontà, unicamente per necessità, appunto. Fatta questa ovvia quanto fondamentale premessa, è opportuno evidenziare un altro dato altrettanto importante: non trascorriamo qualche minuto sul posto di lavoro, ma 30, 36, 40 e delle volte anche più ore, ogni settimana. Si tratta di ore che sottraiamo alle nostre attività famigliari, ai nostri hobbies, sport o passatempi. Si tratta di ore prive di quella spensieratezza che sperimentiamo unicamente durante il nostro tempo libero, durante le nostre vacanze, durante i nostri viaggi, durante quei momenti così preziosi trascorsi con i nostri amici, i nostri affetti o altre persone con cui semplicemente amiamo stare, trascorrere il nostro tempo.

“Ci troviamo, per tante ore ogni giorno in un luogo, forzatamente, per stare con persone non scelte da noi. Tale circostanza, per sua natura, si presenta come la radice di un altissimo potenziale conflittuale”

Non solo, quindi, ci ritroviamo in un posto, il posto di lavoro, senza volerlo, ma dobbiamo restarci per una quantità di tempo considerevole. Certamente qualcuno potrà obiettare che ha scelto il proprio lavoro (domando: nel sceglierlo avevate di fronte diverse valide o soddisfacenti alternative?), nessuno potrà negare tuttavia che nella stragrande maggioranza dei casi, quel lavoro a lungo andare si presenta come fonte di tensioni, pressioni, spesso di sfide inevitabili e difficili da gestire che trascendono la natura del lavoro stesso ma lo accettiamo e persistiamo a svolgerlo per tanti anni sotto il peso delle spese e dei costi di vita. D’altra parte non abbiamo alternative.

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Harald Ege – Fonte: profilo Facebook ufficiale

C’è un altro aspetto, forse ancora più importante: non abbiamo scelto le persone con cui conviviamo in quel posto così tante ore ogni giorno, e spesso non sono nemmeno di nostro gradimento. Colleghi, superiori, anche sottoposti sono stati assunti in precedenza rispetto alla nostra stessa assunzione e comunque non da noi stessi (le aziende stesse spesso, nella maggior parte dei casi, non si ritrovano a “scegliere” realmente il proprio personale, nel senso che debbono “accontentarsi” di “scegliere” tra i candidati disponibili).

In sostanza, ci troviamo, per tante ore ogni giorno in un luogo, forzatamente, per la nostra sopravvivenza economica, per stare poi con persone non scelte da noi. Tale circostanza, per sua natura, si presenta come la radice di un altissimo potenziale conflittuale. È intuitivo pensare quanto sia facile che una piccola scintilla, un piccolo diverbio o un confronto tra due opinioni contrapposte esondino in un conflitto consistente, visto il contesto tensivo nel quale nascono. La frustrazione di “dover” lavorare, l’insoddisfazione che ci deriva dal trovarci con persone sul posto di lavoro non di nostro gradimento, crea una polveriera pronta ad esplodere da un momento all’altro, per un nonnulla. Basta veramente poco a far scoppiare il finimondo.

Si tratta di una condizione “originaria” paragonabile a quella dalla quale è scaturita la prima guerra mondiale, in cui tutte le potenze europee avevano mire imperialistiche e tutte erano insoddisfatte perché ambivano a territori o poteri che assumevano essere di loro appartenenza per diritto. In questa polveriera di nazionalismi, è possibile individuare una scintilla (l’attentato all’erede al trono asburgico dell’Austria-Ungheria) che ha scatenato la grande guerra che nessuno ha voluto ma che nessuno ha nemmeno cercato di evitare. La stessa identica cosa spesso accade sul posto di lavoro. Il conflitto esplode dove imperversa l’insoddisfazione e nessuno fa niente per evitarlo. Ne consegue un cattivo clima aziendale, inefficienza, rapporti avvelenati e soprattutto una dinamica relazionale improntata allo scontro, e non alla collaborazione o alla sinergia.

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