Alessandro Riello: «Apriremo fabbriche negli Usa, produrre in Europa è difficile»

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Federico Nicoletti

Il presidente di Aermec (climatizzazione): «Noi costretti, il Green Deal è diventando folle: ecco perché»

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«Abbiamo fatto del produrre in Italia la nostra bandiera. Se dobbiamo ammainarla, non è colpa nostra». E di ritorno dagli Stati Uniti, Alessandro Riello, presidente di Aermec, l’azienda della climatizzazione con sede a Bevilacqua, nel Veronese, 370 milioni di euro di fatturato 2024 – in aumento anche in un anno difficile rispetto ai 360 del 2023 -, cuore del gruppo Giordano Riello, che ne vale 600. Ad Orlando, in Florida, ha guidato l’azienda ad Ahr, la fiera di riferimento per il settore: «Le soddisfazioni non sono mancate – dice lui -. Abbiamo visto quanto le aziende italiane ed europee siano più avanti, con un’innovazione molto sviluppata. In un mercato americano sospeso tra ottimismo e preoccupazione, per le prime mosse dell’amministrazione Trump». Gli Usa per Aermec valgono 40 milioni di ricavi, entro una quota estera del 50% sul totale. L’azienda sta attuando un cambio di passo, con l’apertura di due filiali negli Usa e in Canada, l’anno scorso. E ora potrebbe aggiungersi uno stabilimento produttivo: fatto epocale, per chi ha sempre scelto di produrre solo in Italia. Scelta connessa ai limiti imposti dalle pesanti norme del Green Deal europeo. Che ora si combinano, in una morsa letale, con il rischio dazi.

Presidente, non sono passate inosservate le sue dichiarazioni in un convegno di settore a Roma in cui sottolineava i rischi delle nuove norme europee che rischiano di spingere la delocalizzazione. Pensate di aprire uno stabilimento negli Usa?
«Le dirò, per quanto riguarda un investimento produttivo negli Usa, che ci stiamo pensando più che seriamente. Dopo le due società negli Usa e in Canada, ora il progetto è di avere nel giro di due anni un’unità produttiva dedicata a Nord e, forse, anche Sud America. L’obiettivo è partire tra fine 2027 e inizio 2028».




















































Scelta di rottura, rispetto alla vostra linea storica.
«Siamo alle prese con il Green Deal europeo, prospettiva giusta per la salvaguardia dell’ambiente. Ma che rischia di trasformare l’Europa in una Red Valley, una vallata di sangue, se portato avanti senza far i conti con la realtà».

Cosa intende, nello specifico del vostro settore?
«Tra 2027 e 2030 dovremo cambiare tutte le apparecchiature di condizionamento e refrigerazione, per passare dagli attuali gas refrigeranti a quelli naturali. Il grande lavoro per riprogettare tutto ci può stare, se nell’Ue concorreremo tutti alla pari. Ma la norma europea ha un aspetto perverso».

E sarebbe?
«I mercati extra-Ue continueranno ad usare i gas di prima. Nessun problema per le multinazionali nostre concorrenti, che hanno fabbriche fuori Europa , dalla Turchia, al Sud America, all’Estremo Oriente. Invece le aziende che producono in Europa – e noi finora ci siamo battuti per tenere il lavoro in Italia – dovranno far i conti con il divieto anche di produrre solo per esportare fuori Ue le macchine con i gas permessi negli altri Paesi. È pura follia».

Qual è il senso di vietarvi di produrre le macchine che tutto il mondo continuerà a chiedervi? Vietare produzioni inquinanti?
«No, si pensa di spingere gli altri Paesi sulla linea europea. Ma è follia pura. La leghi al rischio dazi e alla promozione che gli Usa fanno a suon di incentivi e facilitazioni per attrarre le aziende straniere: non è che abbiamo voglia, siamo costretti ad andarci».

Quindi il Green Deal si salda con i dazi, spingendo ancor più le aziende a uscire.
«Esatto. E lo dice una famiglia imprenditoriale che ha sempre combattuto per servire il mondo dal nostro Paese, perché sente profondamente le radici che ci legano al nostro territorio. Ma se il contadino europeo sradica l’albero, le radici non tengono più».

Quindi la scelta per lo stabilimento negli Usa è presa?
«Alla luce di questi fatti, se non cambiano le cose entro breve, è presa. Stiamo già valutando la localizzazione migliore dove installare un’unità produttiva».

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Siete già allettati dalle agenzie statali? Verso dove vi orientate? Ohio…
«Ohio, Texas, Illinois sono tra le opzioni in considerazione. Ma oltre ai vantaggi monetari e fiscali, dobbiamo insediarci in un sito che offra manodopera qualificata. I nostri uomini stanno preparando le valutazioni e ce le sottoporranno a breve».

E se i dazi non saranno applicati, ci ripenserete?
«No: o cambiano le norme Ue o andremo negli Usa».

Con i dazi, come potrete servire dagli Usa il Canada?
«Comunque sia, già servire gli Stati Uniti sarà una bella sfida, vista le dimensioni del mercato. Ci siamo da vent’anni e lo abbiamo fatto dall’Italia; in futuro dovremo lavorare negli Usa per vendere in loco. Il punto è che rischiamo di trasferire la nostra crescita fuori dall’Europa. E oltre alla questione dei posti di lavoro che avremmo potuto creare qui, negli Usa c’è anche un problema di filiera da creare».

Lei dice: questi investimenti per crescere negli Usa si potevano fare qui.
«Certo. Quel che ci rende orgogliosi è che in un anno come il 2024 abbiamo stabilizzato 120 persone, trasformando contratti a termine in stabili e salendo da 830 a 950 dipendenti; e a Bevilacqua tra 2023 e 2024 abbiamo fatto investimenti per 24 milioni e ne abbiamo a budget altri 16 quest’anno. Ma dobbiamo andare fuori dai confini europei, se vogliamo pensare ad un futuro di sviluppo».

E la produzione italiana dovrà essere specializzata per il mercato europeo.
«Con queste regole sì. Questi non si rendono conto: l’Europa è sì e no 450 milioni di persone, gli altri 7 miliardi vivono altrove. Mi auguro che i politici europei recuperino il buon senso. Mentre invece mi pare, se valuto quelli succedutisi alla guida del Paese, che questo governo, al di là di tutto, stia costruendo un’immagine dell’Italia piu credibile di quanto non sia successo negli ultimi quindici anni».


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