Quei «vini reliquie» pre-fillossera – Di Giuseppe Casagrande

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Alle eroiche viti sopravvissute al flagello del terribile parassita Gianpaolo Girardi e Marta De Toni hanno dedicato il volume «L’importanza di essere franco» (di piede)

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Abbiamo parlato più volte di viti centenarie a piede franco sopravvissute al flagello di un terribile parassita, la fillossera, che nella seconda metà dell’Ottocento decimò la viticoltura del Vecchio Continente. Viti che si salvarono grazie ai terreni sabbiosi, vulcanici, in alta quota e in quei luoghi dove l’insetto infestante non è riuscito a riprodursi.
 
Alle viti franche di piede Gianpaolo Girardi e Marta De Toni hanno dedicato un bellissimo volume dal titolo suggestivo: «L’importanza di essere franco». Edito da Proposta Vini con il patrocinio della Biblioteca internazionale La Vigna, il volume è stato presentato nei giorni scorsi a Vicenza nella sede del Centro culturale della Civiltà Contadina intitolato al mitico Demetrio Zaccaria.


Il terreno sabbioso ha salvato molti vitigni dal flagello della fillossera.
 
 Quelle viti patriarcali a piede franco, patrimonio di biodiversità 

Il monumentale volume (370 pagine riccamente illustrate e con disegno in copertina di Giovanna Girardi, Nuove Arti Grafiche, Trento, 24 euro) si avvale dei preziosi contributi del prof. Mario Fregoni, titolare della Cattedra di Viticoltura all’Università di Piacenza, del ricercatore Diego Tomasi e del giornalista Domenico Liggeri con le pennellate di colore dedicate a 15 «Ritratti Divini», sono i vignaioli meritevoli di encomio.
«L’importanza di essere franco» parla di una storia che inizia nella seconda metà dell’Ottocento e si protrae fino ai primi anni del Novecento. La viticoltura europea in quel periodo rischiò di essere distrutta a causa della rapida diffusione di un afide diventato ben presto tristemente famoso: la fillossera.
 
Ci vollero diversi anni prima di giungere ad una soluzione che permettesse ai vitigni europei di non andare irrimediabilmente perduti. Ciò che ancora non era andato distrutto andava innestato su impianti radicali americani. Quasi tutto venne sradicato e reimpiantato utilizzando barbatelle innestate. In quel «quasi» trovarono la sopravvivenza i vigneti a piede franco giunti fino a noi, testimoni di quella cultura millenaria che lega l’uomo alla vite, «patriarchi» viventi, patrimonio di biodiversità e di memorie.

Microcredito

per le aziende

 

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Gianpaolo Girardi, patron di Proposta Vini (Cirè di Pergine).
 
 L’affascinante racconto di un viaggio tra gli storici vigneti del BelPaese 

Il volume di Gianpaolo Girardi e Marta De Toni è il racconto affascinante di un viaggio attraverso alcuni storici vigneti a piede franco del BelPpaese e degli «eroici» viticoltori che li hanno gelosamente custoditi fino ad oggi, non curanti delle logiche del mercato.
«Un libro – confessano Gianpaolo Girardi e Marta De Toni – che narra la storia dei territori incontrati in questo viaggio e delle caratteristiche che li rendono unici nel panorama vitivinicolo italiano».
A dare autorevolezza a quello che potrebbe sembrare un libro di narrativa vitivinicola ci sono poi i preziosi contributi del prof. Mario Fregoni, titolare della Cattedra di Viticoltura all’Università cattolica del Sacro Cuore di Piacenza, e del dott. Diego Tomasi, ricercatore presso il Centro di Ricerca per la Viticoltura di Conegliano.

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Marta De Toni, appassionata esploratrice e ricercatrice.
 
 Avviato l’iter per il riconoscimento da parte dell’Unesco di queste «reliquie» 

Il prof. Fregoni, in particolare, ha lanciato la proposta di iscrivere queste viti «reliquie» a piede franco nel registro dei siti Unesco come patrimonio culturale dell’Umanità.
Proposta ambiziosa, che unisce storia, tradizioni, biodiversità e si propone di certificare e far conoscere a livello globale l’unicità di questo straordinario patrimonio.
Se ne è parlato anche a Napoli in un convegno che con la benedizione dell’associazione francese «Francs de Pied» presieduta da Loïs Pasquet, ha riunito produttori, ricercatori, enologi e sommelier provenienti da diversi Paesi (Francia, Spagna, Svizzera, Grecia, Turchia, Argentina) e da numerose regioni italiane (Trentino, Valle d’Aosta, Lazio, Basilicata, Campania, Sardegna).
 
La viticoltura a piede franco solleva una serie di interrogativi che non possono più essere ignorati. E il mercato non può continuare a fingere che non esistano vini che per le loro peculiarità risultano tra le migliori rappresentazioni enoiche del nostro Paese.
«Le barbatelle prodotte su scala industriale hanno una prospettiva di vita breve – confessa Gianpaolo Girardi – e rischiano di non avere più la capacità di esprimere nel vino le peculiarità e l’unicità di un prodotto legato ad un determinato territorio, alla sua storia e alle sue radici culturali».

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Il prof. Mario Fregoni, itolare della Cattedra di Viticoltura all’Università di Piacenza,
 
 I «tedofori» della viticoltura franca di piede: dalla Valle d’Aosta all’Etna 

Gran parte del volume è dedicata ai «tedofori» della viticoltura franca di piede (rappresentati da un simpatico disegno di Giovanna Girardi) che con passione, dedizione e coraggio perpetuano la storia millenaria della mitica fiamma olimpica dei Greci.
Gianpaolo Girardi, patron di Proposta Vini ideò il progetto «Vini Franchi di piede» nel 1999. Sono vini ubicati in numerose regioni della Penisola: dalla Valle d’Aosta alla Sardegna, dal Trentino alla Sicilia passando per il Veneto, l’Emilia Romagna, il Lazio, la Campania. Sono vini schietti, genuini, sinceri, con caratteristiche (all’olfatto e al gusto) spiccate rispetto ai vini prodotti con le uve non innestate su vite americana.
Questi «tedofori» sono un mosaico di realtà diverse accomunate da un «fil rouge» fatto di radici storiche, di memorie, di biodiversità.
Sono piccoli mondi antichi da scoprire: uomini, tradizioni e insegnamenti che non possono andare perduti. Non sono solo monumenti, non sono solo musei, sono i «patriarchi» della nostra viticoltura.
 
Quindici sono i «tedofori» citati con dovizia di particolari nel libro e ancor più numerosi sono i «vini-reliquie». In Valle d’Aosta ecco il Blanc de Morgex et de La Salle di una cooperativa di viticoltori, la Cave Mont Blanc, fondata dal parroco di Morgex don Alexandre Beauget e oggi presieduta da Nicolas Bovard. In Veneto nella zona del Soave, per la precisione a Monteforte d’Alpone ecco la Garganega che trova la sua espressione ancestrale sulle colline vulcaniche di Brognoligo dove Gelmino e Cristina Dal Bosco, numi tutelari della Cantina Le Battistelle, custodiscono con cura maniacale i cosiddetti «Rasoli», vale a dire le talee che venivano messe a radicare direttamente nel vigneto per creare nuove barbatelle.

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 In Trentino il vigneto Còi di Vallarom e a Revò il Groppello del Zeremia 

Tra i «tedofori» del Trentino che hanno sempre creduto ai vitigni a piede franco ampio spazio è riservato all’azienda «Vallarom» di Masi di Avio e all’azienda «El Zeremia» di Revò.
Vallarom, azienda Biologica e BioVegan certificata, sorge a due passi dal Castello di Sabbionara e ad un tiro di schioppo da Mama d’Avio dove un tempo era segnato il confine tra l’Impero austro-ungarico e la Repubblica Serenissina di Venezia.
Dal 1962 l’azienda (un antico maso del Quattrocento con agritur) è gestita da Filippo Scienza, dalla moglie Barbara e dal figlio Riccardo. L’azienda è famosa per alcuni gioielli, premiatissimi nei vari concorsi (Chardonnay, Pinot Nero, anche in versione spumante, Syrah, Marzemino, Vadum Caesaris, Moscato Giallo) e per un Lambrusco a foglia frastagliata, vitigno autoctono a piede franco da vitis silvestris addomesticata, coltivato sui terreni di origine alluvionale in localià Còi lungo le anse del fiume Adige.
 
L’altro «tedoforo» trentino è Lorenzo Zadra, figlio del mitico Augusto «El Zeremia» che salvò dall’estinzione il Groppello, vitigno autoctono, coltivato sulle sponde terrazzate del lago di Santa Giustina (Revò, Romallo, Cagnò) quando a fine Ottocento il flagello della fillossera decimò la quasi totalità dei vigneti della Terza Sponda della Val di Non.
Oggi il nume tutelare del Groppello – dicevamo – è il figlio Lorenzo che a Revò ha coronato il sogno del padre realizzando una nuova cantina con barricaia e sala degustazione.
Oltre al Groppello tradizionale Lorenzo Zadra ha riscoperto il Maor, antico vitigno a bacca bianca presente fin dal Cinquecento in Val di Non sulla sponda sinistra del Noce e all’imbocco della Val di Sole, ribattezzato Groppello Bianco. E recentemente un vitigno Piwi: lo Johanniter che si presta anche ad essere spumantizzato.

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 In Emilia sulle dune del Delta la Fortana, nel Lazio la Biancolella di Ponza 

In Emilia Romagna sulle dune di sabbia del Delta del Po nei pressi dell’Abbazia di Pomposa poco distante da Comacchio troviamo un’altra reliquia storica: la Fortana coltivata dalla famiglia Mariotti in un vigneto a piede franco, arso dal sole e dalla salsedine. Qui, sulla Duna della Puia, nasce il famoso «spumante delle sabbie» del Bosco Eliceo, il fiore all’occhiello di Mirco Mariotti, una bollicina dal colore rubino intenso, spuma briosa (che ricorda il Lambrusco), bouquet fruttato di ciliegia con delle note balsamiche, leggermente abboccato e piacevolmente tannico. Ideale – aggiungo io – con la salama da sugo ferrarese.
 
Nel Lazio, meglio sull’isola di Ponza, ecco un altro vitigno storico pre-fillossera: la Biancolella arrivata sulle isole vulcaniche al largo del Golfo di Gaeta nel 1700 a seguito della colonizzazione da parte dei Borboni che inviarono a Ponza 52 famiglie provenienti da Ischia che portarono con sé questo vitigno. Qui, nel Duemila, a Punta Fieno, Luciana Sabino con il marito Emanuele Vittorio, lasciata la natìa Napoli, hanno deciso di recuperare gli antichi vigneti terrazzati assegnati nel 1734 da Carlo di Borbone a un loro antenato, Pietro Migliaccio, e hanno fondato con il supporto dell’enologo Vincenzo Mercurio le Antiche Cantine Migliaccio. Nel vigneto a piede franco Catena D’ò Nonn, in condizioni pedoclimatiche estreme, producono il Biancolella Fieno di Ponza Bianco oltre ad un rosso e ad un rosato (da uve Piedirosso e Aglianico) e il loro fiore all’occhiello: il Macerato Biancolella che ricorda i profumi della macchia mediterranea.

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 Storie di popoli e di vulcani: il Vesuvio, i Campi Flegrei, le vigne alberate 

Quanto mai interessanti anche i capitoli che raccontano storie di popoli e di vulcani.
La Campania è entrata nella storia per la famosa eruzione del Vesuvio del 79 dopo Cristo che distrusse Ercolano e Pompei, nella quale perse la vita Plinio il Vecchio e che fu descritta da Plinio il Giovane. Queste eruzioni hanno influenzato sia la composizione dei suoli sia la morfologia stessa dei luoghi.
 
Cinque sono le aziende campane citate con dovizia di particolari nel volume «L’importanza di essere franco»: l’azienda Bosco dei Medici di Pompei, numi tutelari Antonio Monaco e Giuseppe Palomba, nipoti di due famiglie legate da antica amicizia. Nel vigneto La Rotonda che prende il nome dalla sua particolare forma circolare, coltivano viti centenarie a piede franco: l’Aglianico, il Piedirosso, il Caprettone e la Falanghina.
 
Un’oasi di biodiversità è la cantina Villa Dora di Vincenzo Orabona che alle falde del Vesuvio su imput dell’enologo Roberto Cipresso coltiva in un vigneto con una particolare forma di allevamento detta «pergola vesuviana» il Caprettone, inizialmente confuso con la Coda di Volpe, e la Falanghina. Vini di punta: il Lacryma Christi del Vesuvio Bianco e il Lacryma Christi del Vesuvio Rosso.
 
Nei Campi Flegrei, terra di mito e di leggende, la famiglia Di Meo custodisce vigne antiche da cinque generazioni. Nel vigneto «Vigna Madre» l’azienda – La Sibilla – produce vini ancestrali (Falanghina anche in versione passita) che sfidano il tempo.
 
Una storia a parte meritano le vigne alberate di origine etrusca del Casertano, meglio di Aversa, un sistema di allevamento unico al mondo, con quegli «uomini ragno» che nei giorni della vendemmia si arrampicano sulle scale per raccogliere i grappoli del famoso Asprinio d’Aversa, oggi coltivato anche con sistemi di allevamento più moderni.
La famiglia Numeroso, proprietaria dell’antica cantina «I Borboni» nel centro storico di Lusciano, nella tenuta Santa Patena, fedele alla tradizione delle vigne maritate agli alberi, produce l’Asprinio d’Aversa in diverse versioni, la Coda di Volpe, la Falanghina e l’Aglianico.
 
In Irpinia a Castelvetere sul Calore, Fabio de Beaumont, ultimo erede di una nobile famiglia che dal 1600 possiede in loco proprietà terriere, aiutato da papà Francesco e dalla nonna, la baronessa Alessandra, è tornato nella terra d’origine per ridare vita alla Barbera piemontese a piede franco piantata dal nonno 150 anni fa e preservata dal flagello della fillossera grazie al terreno vulcanico e sabbioso.

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 La Sicilia, l’Etna, Salvo Foti e l’antica associazione dei «Vigneri» 

Un capitolo a parte merita la Sicilia e l’Etna in particolare, il mitico «Mongibello» dantesco, luogo di punizione per i violenti che hanno offeso Dio, la natura e l’arte, ma un paradiso per i viticoltori etnei, i mitici «Vigneri». Il pioniere è Salvo Foti, enologo, agronomo, antropologo, ricercatore, libero docente nonché accademico, storico e scrittore, citato dal New York Times come la più importante figura di riferimento del mondo vitivinicolo siciliano, impegnato, lui che ama la viticoltura primordiale, nella riscoperta e valorizzazione dei vitigni autoctoni a piede franco dell’Etna: il Nerello Mascalese, il Nerello Cappuccio, il Carricante. E come simbolo della sua missione ha scelto la vite ad alberello. Una pratica agricola millenaria dichiarata dall’Unesco patrimonio dell’Umanità.
 
Salvo Foti ha ricostituito un’antica associazione di viticoltori etnei: «I Vigneri». Il nome deriva dall’antica «Maestranza dei Vigneri» fondata nel 1435 a Catania ed ha come finalità la salvaguardia delle tradizioni millenarie dell’isola, la tutela della biodiversità della viticoltura etnea e il rispetto della dignità del lavoro dell’uomo. I suoi vini che ama definire «umani» più che biologici raccontano il rapporto quotidiano con «a muntagna» (l’Etna) con le fatiche di una viticoltura eroica: dal Vinudilice (un blend di uve bianche e rosse raccolte e vinificate assieme), il Vinupetra rosso, il Palmento Caselle (Carricante in purezza) e il Vinupetra Viticentenarie.

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Filippo Scienza nella sala degustazione dell’azienda Vallarom di Masi di Avio.
 
 La Sardegna e i Tabarkini con le antiche viti a piede franco 

Anche la Sardegna, come la Sicilia, vanta una storia vitivinicola millenaria grazie agli scambi con le numerose popolazioni che nel corso dei secoli sono venute a contatto con questa straordinaria isola, con la sua gente e la sua cultura. Da un recente ritrovamento, un vaso in terracotta contenente dei vinaccioli, si è scoperto che sull’isola fin dal IX secolo avanti Cristo era presente uno dei «patriarchi» dell’ampelografia sarda: il Carignano. Vitigno a bacca rossa che è anche il simbolo della cooperativa Santadi fondata da venti vignaioli eroici del Sulcis. Oggi sono 200 che coltivano 600 ettari di vigneti a piede franco e sulle sabbie. Giacomo Tachis, uno dei più grandi enologi italiani, ha definito il vino ottenuto da questo storico vitigno «straordinario poichè la pianta soffre la sete, il caldo, il vento e forse anche un po’ di fame. E la pianta che soffre – ha aggiunto – dà sempre un vino migliore».
 
Altro vino simbolo della Sardegna è il Vermentino, fiore all’occhiello assieme al Cannonau, al Cagnulari e alle bollicine metodo classico, dell’azienda Quartomoro di Piero Cella, che possiede un vigneto di origine vulcanico-basaltica a Marrubiu (Oristano) e sull’isola di Sant’Antioco.
 
Una storia parte meritano, infine, i Tabarkini, gli abitanti dell’isola di San Pietro che comprende il comune di Carloforte e il comune di Calasecca sulla vicina isola di Sant’Antioco. Sono i discendenti di coloni liguri che nel Cinquecento approdarono sull’isola di Tabarca (Tunisia) da cui il nome Tabarkini e poi si trasferirono sulle isole sarde alla metà del Settecento. Parlano una lingua affine al genovese e hanno usi, tradizioni e gastronomia del tutto particolari. A Carloforte due vecchi amici, Umberto Zamaroni e Carlo Perfetti hanno coronato il sogno di fondare una cantina, «U Tabarka Tanca Gioia», ove vinificano il Vermentino e il Carignano del vigneto di origine vulcanica Muristellu sull’isola di San Pietro. Vini dai sapori e dai profumi intensi (mirto e pini d’Aleppo) della macchia mediterranea.

Conto e carta

difficile da pignorare

 

In alto i calici. Prosit!
Giuseppe Casagrande – [email protected]

Lorenzo Zadra (El Zeremia) brinda con un calice di Groppello nella Cantina di Revò.
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