Panetta, cosa ha detto il governatore della Banca d’Italia: il testo del discorso

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Redazione Economia

Dal patto europeo per la produttività alla lotta all’inflazione. L’intervento del governatore della Banca d’Italia Fabio Panetta al 31° Congresso Assiom Forex

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L’intervento del governatore della Banca d’Italia Fabio Panetta al 31° Congresso Assiom Forex.  «Nelle economie avanzate l’inflazione è in calo e si sta avvicinando agli obiettivi delle banche centrali, che stanno progressivamente allentando la stretta monetaria attuata in precedenza. Fa eccezione il Giappone, dove il rialzo dell’inflazione ha spinto la Banca centrale ad aumentare i tassi ufficiali allo 0,5 per cento, il livello più alto da diciassette anni. Rispetto al passato, la disinflazione è stata più rapida e meno penalizzante per l’attività economica. Questo risultato è stato possibile grazie al veloce rientro degli shock che avevano spinto al rialzo i prezzi al consumo – come l’alto costo dell’energia – e all’azione della politica monetaria, che ha mantenuto ancorate le aspettative di inflazione. Negli Stati Uniti, dove la riduzione dell’inflazione procede in modo irregolare in un contesto di crescita robusta, la Federal Reserve sta allentando le condizioni monetarie con maggiore gradualità del previsto. A condizionare le sue scelte contribuisce il recente cambio di amministrazione: le nuove politiche fiscali e commerciali potrebbero infatti influenzare significativamente l’economia e la dinamica dei prezzi, con implicazioni per la politica monetaria. In tale contesto dall’inizio di dicembre, nonostante il calo dei tassi di interesse a breve termine, i rendimenti a lunga scadenza sono aumentati, favorendo un apprezzamento del dollaro. 

Negli Stati Uniti la crescita resta elevata, trainata dall’aumento dei consumi delle famiglie, a sua volta alimentato dall’incremento dell’occupazione e dei salari, oltre che dai guadagni conseguiti nei mercati borsistici. Negli altri paesi avanzati la crescita rimane invece debole. In Cina la domanda interna è frenata dal deterioramento della fiducia dei consumatori e dalla crisi del settore immobiliare. Le esportazioni mostrano un’accelerazione, che potrebbe però riflettere in parte l’effetto temporaneo di un’anticipazione delle vendite estere per evitare possibili successivi dazi da parte degli Stati Uniti. 




















































Guardando avanti, il Fondo monetario internazionale prevede una crescita globale stabile, poco sopra il 3 per cento sia nel 2025 sia nel 2026. La previsione a medio termine, pari al 3,1 per cento, rimane contenuta in una prospettiva storica2 . I rischi per la crescita restano orientati al ribasso, principalmente a causa delle tensioni geopolitiche e delle difficoltà persistenti dell’economia cinese. Anche l’elevato indebitamento globale potrebbe influenzare negativamente l’attività produttiva, qualora generasse fenomeni di volatilità o instabilità finanziaria. Infine, le politiche dell’amministrazione statunitense potrebbero avere effetti negativi sulla crescita economica e sulle condizioni finanziarie globali.

Il commercio internazionale

«Il commercio internazionale sta subendo cambiamenti significativi, determinati da fattori congiunturali, geopolitici e tecnologici . Molti paesi stanno concentrando le relazioni commerciali su partner considerati affidabili, con cui hanno relazioni consolidate o affinità politiche ed economiche. Questa tendenza sta ridisegnando la geografia del commercio, riducendo gli scambi tra paesi appartenenti a blocchi geopolitici contrapposti e aumentando quelli tra economie politicamente allineate. Il fenomeno riguarda sia i paesi avanzati sia quelli in via di sviluppo e ha portato alla forte riduzione della quota di prodotti cinesi nelle importazioni di beni tecnologici negli Stati Uniti e, più recentemente, nell’Unione europea. In molti casi la diversificazione geografica delle importazioni è solo apparente. Gli esportatori hanno riorganizzato le loro filiere produttive, creando triangolazioni attraverso paesi terzi per aggirare le barriere commerciali. Ad esempio, alcuni prodotti cinesi vengono esportati negli Stati Uniti passando per il Messico, il Vietnam o Taiwan. Inoltre, le aziende cinesi stanno aprendo impianti produttivi in paesi non soggetti a restrizioni o direttamente in quelli che le hanno imposte. La frammentazione riduce l’efficienza del commercio mondiale, aumentando i costi delle merci e rendendo le catene di approvvigionamento più complesse e vulnerabili. In diversi paesi ciò potrebbe limitare la disponibilità di alcuni prodotti, in particolare quelli tecnologici e quelli essenziali per la transizione climatica».

Le tensioni commerciali e i loro effetti

«La riconfigurazione del commercio appena delineata, in cui hanno un peso considerevole le motivazioni geopolitiche, sta indebolendo il sistema multilaterale di governance economica globale fondato sull’integrazione produttiva e sul libero scambio. Il commercio internazionale viene sempre più utilizzato come leva strategica, soprattutto nella competizione tecnologica. In questo contesto si inserisce la strategia della nuova amministrazione statunitense, che prevede nuovi e più elevati dazi sulle importazioni. Particolare attenzione viene rivolta ai partner con un ampio avanzo commerciale verso gli Stati Uniti. Il surplus della Cina verso l’economia americana ammontava nel 2024 a circa 300 miliardi di dollari, circa un terzo dell’avanzo commerciale complessivo cinese e un quarto del disavanzo degli Stati Uniti. Secondo le nostre stime, se i dazi annunciati in fase pre-elettorale fossero attuati e accompagnati da misure di ritorsione, la crescita del PIL globale si ridurrebbe di 1,5 punti percentuali. Per l’economia statunitense l’impatto supererebbe i 2 punti. Per l’area dell’euro le conseguenze sarebbero più contenute, intorno a mezzo punto percentuale, con effetti maggiori per Germania e Italia, data la rilevanza dei loro scambi con gli Stati Uniti.

 Nella fase iniziale questi impatti negativi potrebbero essere amplificati dall’aumento dell’incertezza sulle politiche commerciali, già evidente nelle ultime settimane. Il caso più significativo è quello della Cina. Dato l’eccesso di capacità produttiva nel settore industriale, da alcuni anni le aziende cinesi stanno riducendo i prezzi delle esportazioni, registrando un forte aumento delle vendite estere e delle quote di mercato nelle economie emergenti. L’imposizione di dazi elevati da parte degli Stati Uniti potrebbe spingere gli esportatori cinesi a cercare nuovi mercati per compensare il calo delle vendite sul mercato americano. In tale scenario, le imprese italiane ed europee si troverebbero esposte a crescenti pressioni competitive da parte delle aziende cinesi, la cui specializzazione settoriale è sempre più simile a quella europea. L’esperienza storica mostra che le guerre commerciali danneggiano la crescita, anche nei paesi che le avviano. I dazi non garantiscono una riduzione del disavanzo delle partite correnti. Se lo facessero, comporterebbero anche un minore afflusso netto di capitali verso il paese che li ha imposti, con conseguenti aggiustamenti attraverso un aumento del risparmio dei residenti o una riduzione degli investimenti. È dunque possibile che l’amministrazione statunitense stia utilizzando gli annunci sui dazi come leva negoziale per ridefinire i rapporti economici e politici con altre aree del mondo. Tuttavia, in un contesto già segnato da tensioni geopolitiche, commerciali e belliche, questa strategia potrebbe sfuggire al controllo, generando effetti ben oltre quelli desiderati, aggravando i dissidi esistenti e aprendo nuove fratture. Soluzioni negoziali basate sulla cooperazione non solo rappresentano un’alternativa preferibile, ma sono necessarie per evitare una spirale di conflitti che minaccerebbe la stabilità globale».

L’economia europea

«L’economia dell’area dell’euro fatica a ritrovare slancio. Dopo una stagnazione iniziata alla fine del 2022, il PIL è cresciuto a ritmi contenuti nei primi trimestri del 2024, per poi arrestarsi nuovamente alla fine dell’anno. La domanda interna manca di forza. Il tasso di risparmio ha raggiunto livelli elevati, sostenuto dall’aumento dei rendimenti reali e dal desiderio delle famiglie di ricostituire la ricchezza erosa dallo shock inflazionistico. Inoltre, il susseguirsi di episodi di crisi – dalla pandemia alla guerra in Ucraina – ha probabilmente accresciuto la prudenza dei consumatori. Le aspettative di una ripresa trainata dai consumi e sostenuta dall’occupazione sono state ripetutamente disattese. Dalla fine del 2023 le previsioni di crescita dell’Eurosistema sono state riviste al ribasso, così come le attese degli operatori privati – in controtendenza rispetto agli Stati Uniti. In base ai dati più recenti, la ripresa potrebbe tardare ulteriormente. La fiducia dei consumatori è tornata a diminuire, in presenza di un crescente pessimismo sulle prospettive economiche e di un indebolimento del mercato del lavoro, su cui tornerò a breve. In un contesto così incerto è improbabile che i consumatori riducano i risparmi.

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Gli investimenti produttivi stanno rallentando anch’essi, a causa del peggioramento delle prospettive di crescita e del tono ancora restrittivo delle condizioni finanziarie. In assenza di una solida ripresa della domanda interna, l’economia dell’area ha trovato un qualche sostegno nella domanda estera. Il contributo delle esportazioni nette, pari a mezzo punto, è stato determinato in ampia misura dalla stagnazione delle importazioni, a fronte di una variazione appena positiva delle vendite estere. A soffrire di più è il settore manifatturiero, che continua a perdere quote di mercato a favore dei produttori cinesi. Questa tendenza, in atto da anni, è accentuata nel settore dell’auto, che rappresenta uno dei pilastri dell’industria europea. In prospettiva, le difficoltà dell’industria automobilistica potrebbero avere conseguenze gravi anche su altri settori. Questi sviluppi mettono in luce le conseguenze di un’eccessiva dipendenza dalla domanda estera. In un contesto di relazioni commerciali tese, l’ampia apertura agli scambi internazionali e la stretta integrazione nelle filiere produttive globali rendono l’economia europea particolarmente esposta alle fluttuazioni del mercato globale e vulnerabile a nuove spinte protezionistiche. 

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L’Europa deve adottare un nuovo modello di sviluppo che valorizzi il mercato unico e riduca la dipendenza da fattori esterni. Vanno rilanciati gli investimenti, che da anni sono inferiori rispetto a quelli degli Stati Uniti e la cui carenza è particolarmente evidente se confrontata con l’elevata capacità di risparmio del nostro continente. Ma non basta investire di più. È necessario investire meglio, privilegiando i progetti e le riforme in grado di innalzare la produttività, la cui bassa crescita rappresenta il principale fattore di debolezza dell’economia europea. In cima alla lista vi sono i settori innovativi, che rappresentano il motore della produttività; in particolare quelli legati alla doppia transizione, ambientale e digitale, che svolgono un ruolo cruciale anche per l’autonomia strategica europea, come nel caso dell’energia. Le risorse necessarie sono ingenti, e richiedono un contributo sia pubblico sia privato. Gli interventi vanno realizzati con azioni congiunte a livello europeo, al fine di realizzare economie di scala e di evitare le duplicazioni che deriverebbero da interventi frammentati a livello nazionale. 

Serve quello che in un recente intervento ho definito un “patto europeo per la produttività”: non si tratta di creare un’unione fiscale, né di introdurre un Ministro delle finanze europeo o trasferimenti sistematici tra paesi, ma di avviare un programma di spesa comune – mirato negli obiettivi e limitato nel tempo e nell’ammontare – per finanziare investimenti indispensabili per tutti i cittadini europei. Oltre a rafforzare il potenziale di crescita degli Stati membri, questa iniziativa consentirebbe di generare un’offerta stabile di titoli comuni europei privi di rischio, un tassello essenziale per la creazione di un mercato unico dei capitali capace di finanziare progetti innovativi, compresi quelli più rischiosi. Le priorità e le strategie per rafforzare la competitività dell’economia europea sono chiare e ampiamente analizzate. La vera sfida, ora, è metterle in pratica.

L’inflazione e la politica monetaria

Il rientro dell’inflazione nell’area dell’euro all’obiettivo del 2 per cento nel medio termine è quasi completo. I rialzi degli ultimi mesi – fino al 2,5 per cento a gennaio – erano previsti e sono dovuti in parte a effetti di base legati all’evoluzione passata dei prezzi dell’energia. L’inflazione di fondo si è mantenuta al 2,7 per cento, ma la sua dinamica sui tre mesi – più rappresentativa delle tendenze recenti – evidenzia un calo pressoché continuo dall’inizio dello scorso anno ed era pari al 2 per cento a gennaio. I prezzi dei servizi continuano a crescere a un ritmo relativamente sostenuto, pari al 3,9 per cento. Questo andamento riflette in parte il lento e graduale adeguamento dei prezzi dei servizi all’inflazione passata, ed è quindi destinato ad attenuarsi per effetto del calo dell’inflazione totale. 

Nel complesso, vi sono motivi per ritenere che la dinamica dei prezzi si stabilizzerà al 2 per cento nel medio termine, in linea con le più recenti previsioni degli esperti dell’Eurosistema. I progressi sul fronte dell’inflazione hanno consentito al Consiglio direttivo della BCE di concludere la fase di rialzo dei tassi ufficiali avviata oltre due anni fa e di invertire la rotta dallo scorso giugno. Da allora i tassi sono stati ridotti cinque volte, portando quello di riferimento della BCE – il tasso sui depositi presso la banca centrale – al 2,75 per cento. Tuttavia il percorso di normalizzazione della politica monetaria non è concluso. Il tasso di riferimento rimane superiore alle stime del tasso neutrale, ossia il livello compatibile con l’assenza di pressioni inflazionistiche e con la crescita potenziale dell’economia. Di conseguenza, la politica monetaria continua a esercitare una pressione al ribasso sull’attività produttiva e sulla dinamica dei prezzi al consumo, un effetto sempre meno necessario in un contesto in cui l’inflazione è vicina all’obiettivo e la domanda interna resta debole. 

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Da qui in avanti, peraltro, il concetto di tasso neutrale perderà progressivamente rilevanza. Le stime del suo valore, infatti, sono altamente imprecise, e forniscono solo un’indicazione approssimativa sull’orientamento della politica monetaria, diventando sempre meno utili a mano a mano che i tassi ufficiali si avvicinano al livello stimato del tasso neutrale. Soprattutto, il concetto di tasso neutrale non offre elementi sufficienti per calibrare con precisione il ritmo della normalizzazione monetaria. Le decisioni di politica monetaria devono sempre basarsi su una valutazione complessiva delle prospettive dell’economia reale e dell’inflazione, in cui gli esercizi previsivi svolgono un ruolo essenziale. Questa considerazione è oggi particolarmente rilevante per l’area dell’euro, grazie al recente miglioramento della qualità delle previsioni di inflazione Secondo le proiezioni pubblicate dall’Eurosistema a dicembre, l’obiettivo di inflazione verrebbe raggiunto con una riduzione dei tassi ufficiali in linea con le aspettative di mercato allora prevalenti, portandoli intorno al 2 per cento dalla metà del 2025. In base a tale scenario, un allentamento monetario meno deciso potrebbe comportare un’inflazione troppo bassa nel medio periodo.

I rischi per l’inflazione

Il quadro economico evolve rapidamente e con esso i rischi che circondano le previsioni, da valutare attentamente. Attualmente, il principale rischio al ribasso per l’inflazione è la debolezza dell’attività economica, su cui mi sono già soffermato. A questo si aggiungono i rischi derivanti dall’aumento dei rendimenti a lungo termine. Questo fenomeno è dovuto in primo luogo all’incremento dei tassi a lungo termine in dollari, che si è propagato sui mercati finanziari europei, determinando una sorta di “importazione” dagli Stati Uniti di una restrizione monetaria non giustificata dalla situazione economica dell’area. Inoltre, il rialzo dei tassi in yen sta inducendo gli investitori giapponesi a ridurre la loro esposizione in titoli esteri – compresi quelli europei – a favore dei titoli domestici29, esercitando una pressione al rialzo sui tassi a lungo termine in euro. I timori di una dinamica salariale incompatibile con la stabilità dei prezzi si stanno attenuando, come si evince dagli ultimi dati disponibili, dai recenti rinnovi contrattuali e dai segnali di indebolimento della domanda di lavoro. Anche un aumento dei dazi statunitensi sulle esportazioni europee non avrebbe presumibilmente effetti significativi sull’inflazione. I dazi potrebbero generare pressioni al rialzo legate a un deprezzamento dell’euro rispetto al dollaro e a eventuali misure di ritorsione da parte della UE. Tuttavia, questi effetti verrebbero compensati da un rallentamento dell’economia globale e dal dirottamento verso i mercati europei delle merci cinesi colpite da dazi elevati. Secondo nostre stime, l’effetto netto dei dazi sull’inflazione sarebbe perciò contenuto, se non leggermente negativo.

I rischi più insidiosi per l’inflazione provengono dai mercati energetici, che stanno registrando una forte volatilità e un aumento dei prezzi, in particolare del gas. Nel breve termine questi andamenti potrebbero rendere più variabile il 17 percorso dell’inflazione. Gli sviluppi futuri andranno monitorati con attenzione, anche se nel medio periodo il rallentamento della domanda mondiale potrebbe contenere le pressioni sui prezzi. Nel complesso, gli indicatori disponibili sembrano suggerire che il rischio prevalente sia ancora quello di un’inflazione inferiore al 2 per cento nel medio termine. Questa conclusione è coerente sia con le aspettative di inflazione implicite nei contratti finanziari, sia con le valutazioni degli analisti. Il processo di normalizzazione della politica monetaria va quindi continuato, accompagnando le decisioni con una comunicazione orientata alle prospettive dell’economia reale e dell’inflazione nel medio termine. In questa fase, un’eccessiva attenzione ai dati di volta in volta disponibili rischia di generare incertezza e volatilità nei mercati, riducendo l’efficacia della politica monetaria.

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L’economia italiana

Negli ultimi trimestri la crescita economica italiana si è affievolita, anche a causa del difficile contesto internazionale e degli effetti della stretta monetaria. Sono venuti a mancare soprattutto i contributi degli investimenti e delle esportazioni, le due componenti che più avevano sostenuto la vigorosa ripresa successiva alla pandemia. Gli investimenti in beni strumentali sono stati particolarmente penalizzati dalle difficoltà, comuni a tutta l’area dell’euro, del settore manifatturiero32. Le vendite all’estero stanno risentendo della debolezza dell’economia europea, in particolare di quella tedesca, che assorbe il 12 per cento delle nostre esportazioni. Quasi la metà delle aziende manifatturiere che vendono in Germania ha visto ridursi le proprie esportazioni in quel mercato, con ripercussioni negative sulla produzione industriale, già in calo dal 2022. 

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Di fatto, attraverso il commercio internazionale le difficoltà dell’economia tedesca si stanno trasmettendo a quella italiana. Il principale motore della crescita sono stati i consumi delle famiglie, sostenuti dalla forza del mercato del lavoro e dal graduale, seppur ancora parziale, recupero dei salari reali. Nel complesso del 2024 il PIL è aumentato dello 0,5 per cento – di circa 2 decimi in più senza la correzione per il maggior numero di giornate lavorative – ma la crescita si è arrestata nel secondo semestre. Secondo le nostre previsioni, nei prossimi mesi il prodotto tornerà a espandersi. La riduzione dei tassi di interesse, gli alti livelli di occupazione e la ripresa della domanda estera sosterrebbero i consumi e le esportazioni, favorendo nel contempo l’accumulazione di capitale da parte delle imprese. 

 Così come per il resto d’Europa, le prospettive di ripresa dell’economia italiana sono messe a rischio da un contesto economico internazionale indebolito e incerto. È quindi ancora più necessario affrontare con decisione i nodi che frenano la crescita italiana: la bassa produttività, l’elevato debito pubblico, le inefficienze dell’azione pubblica35. È essenziale moltiplicare gli sforzi per completare gli investimenti del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) e le riforme ad esso collegate, intervenendo tempestivamente in caso di ritardi. Sarà necessario dare continuità al Piano, proseguendo l’impegno di riforma e favorendo una ricomposizione del bilancio pubblico a sostegno degli investimenti in capitale umano e materiale e in innovazione. Oltre a sostenere l’attività nei mesi futuri, l’attuazione del PNRR potrà innalzare la produttività e il potenziale di crescita, facilitando il pieno recupero dei redditi reali e la crescita della domanda interna. Si rafforzerebbe così la fiducia nelle misure adottate a livello europeo, agevolando la strada per investimenti comuni a sostegno della produttività. È altrettanto essenziale attuare il Piano strutturale di bilancio a medio termine elaborato dal Governo e approvato a gennaio dal Consiglio della UE.

 La gestione prudente dei conti pubblici sta già dando frutti, con una riduzione del differenziale di rendimento tra i titoli di Stato italiani e tedeschi. Proseguire su questa strada può favorire un miglioramento dei rating del debito sovrano, ancora sui bassi livelli di quindici anni fa, quando i titoli italiani furono declassati a seguito della crisi finanziaria e della crisi del debito nell’area dell’euro. Da allora l’economia italiana ha registrato progressi in termini di stabilità finanziaria: la posizione patrimoniale netta sull’estero ha superato il 12 per cento del PIL, con un miglioramento di oltre 35 punti percentuali rispetto al 2013; il settore bancario ha fortemente accresciuto la sua redditività e la sua dotazione di capitale; il mercato dei titoli pubblici è tornato liquido ed efficiente, attirando una base di investitori ampia e diversificata. Questi fattori, insieme al riequilibrio delle finanze pubbliche, possono contribuire a ridurre ulteriormente i rendimenti sui titoli di Stato, migliorando le condizioni di finanziamento per famiglie e imprese e rafforzando la competitività del Paese.

I passi avanti da fare

«L’uscita dalla fase di alta inflazione sta avvenendo con costi economici nel complesso contenuti. L’economia globale continua a espandersi, seppur con ritmi moderati in una prospettiva storica. I mercati e gli intermediari finanziari sembrano avere anch’essi assorbito i terribili shock degli ultimi anni. Ma i rischi per l’economia mondiale non sono svaniti. Gli elementi di maggiore preoccupazione provengono ancora dalle tensioni geopolitiche. Non solo perché stanno frammentando le filiere produttive, compromettendo l’efficienza del sistema economico globale, ma perché mettono a repentaglio l’architettura multilaterale e l’integrazione tra paesi in direzioni difficili da prevedere. L’incertezza derivante dalle politiche commerciali statunitensi sta condizionando gli scambi internazionali, gli investimenti e la crescita. Occorre affrontarla affermando le posizioni europee attraverso il dialogo e la negoziazione, evitando contrapposizioni che potrebbero generare nuove dispute e nuove fratture. L’Europa sta subendo questi sconvolgimenti, tardando a maturare una convinta risposta comune. L’affanno della sua economia contrasta con la vivacità di quella statunitense. Questa divaricazione va oltre la fase congiunturale: segnala una difficoltà europea più profonda, di cui il ritardo digitale è forse l’aspetto più evidente. 

La debolezza degli investimenti a fronte degli elevati tassi di risparmio è il sintomo del malessere europeo. Questa situazione non è un destino ineluttabile. Per superarla occorre la consapevolezza che una risposta europea comune può permetterci di affrontare con successo le difficoltà attuali. La Bussola per la competitività – il programma della Commissione europea per la legislatura – individua correttamente tre obiettivi: innovazione, decarbonizzazione e autonomia strategica. Per raggiungerli e per costruire un’economia capace di crescere e competere saranno necessarie risorse ingenti, superiori a quelle del bilancio comunitario. Occorreranno investimenti comuni, nell’ambito di un patto europeo per la produttività, finanziati anche con l’emissione regolare di titoli da parte della UE. L’Italia ha dimostrato di saper reagire alle crisi, e non può accontentarsi di una crescita modesta. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza è una leva straordinaria per gli investimenti e le riforme. Va attuato con determinazione ed efficacia. Il risanamento dei conti pubblici, la produttività e l’innovazione sono le priorità per garantire stabilità e sviluppo. L’Europa e l’Italia hanno un sistema produttivo d’eccellenza, nonostante le difficoltà contingenti; possono contare su un capitale umano ampio e diffuso e talenti straordinari; dispongono di risorse finanziarie in abbondanza, pronte a sostenere nuovi investimenti e a finanziare la crescita. Possono costruire il proprio futuro con scelte coraggiose, visione e unità d’intenti. Si tratta ora – e non è compito facile – di agire, con lucidità e ambizione, per un’economia più forte, competitiva e inclusiva».

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15 febbraio 2025 ( modifica il 15 febbraio 2025 | 11:53)

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