“Fumo da quando è morta mia figlia”. Ma non c’è reato

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La sesta sezione penale della Corte di cassazione ha confermato con una sentenza storica che la coltivazione domestica di marijuana, se destinata esclusivamente all’uso personale e in assenza di indici di vendita, non costituisce reato. La decisione è stata presa in seguito al ricorso presentato dal procuratore generale presso la Corte di appello di Perugia, che contestava l’assoluzione di un uomo finito sotto processo imputato per la coltivazione di 48 piante di marijuana nella sua abitazione.

L’uomo era stato inizialmente condannato dal tribunale di Terni con l’accusa di coltivazione di piante produttive di sostanze stupefacenti. Il tribunale aveva ritenuto che, nonostante il carattere domestico della coltivazione, non fosse esclusa la possibilità che parte della marijuana prodotta potesse essere destinata alla vendita. Tuttavia, la Corte di appello di Perugia aveva successivamente assolto l’uomo, considerando che la coltivazione fosse modesta e destinata esclusivamente all’autoconsumo.

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La Corte di Cassazione ha ribadito che il reato di coltivazione di stupefacenti è configurabile indipendentemente dalla quantità di principio attivo estraibile, purché le piante siano conformi al tipo botanico previsto e abbiano la capacità di produrre sostanze stupefacenti. Tuttavia, ha precisato che non integra il reato una coltivazione domestica, svolta con tecniche rudimentali e con un numero limitato di piante, quando non vi siano indici significativi di un inserimento nel mercato illegale e la destinazione sia esclusivamente personale.

Nel caso specifico, la Cassazione ha evidenziato che l’uomo aveva coltivato le piante in uno spazio angusto, utilizzando tecniche semplici e un apparato di illuminazione di base, necessario per far maturare le piante in una cantina non illuminata. La quantità di marijuana prodotta era modesta, e non vi erano prove che l’imputato intendesse venderla. La Corte ha quindi confermato l’assoluzione, rigettando il ricorso del procuratore generale.

Il tribunale di Terni aveva inizialmente condannato l’uomo, ritenendo che l’uso di strumentazione articolata e costosa (oltre 300 euro) fosse difficilmente compatibile con un mero autoconsumo, soprattutto considerando le condizioni economiche dell’imputato, che percepiva il reddito di cittadinanza. Tuttavia, aveva riconosciuto le attenuanti generiche, tenendo conto delle difficili condizioni di vita dell’uomo, che aveva iniziato a consumare stupefacenti dopo la prematura morte della figlia.

La Corte di appello di Perugia, invece, aveva distinto la detenzione di 4,15 grammi di marijuana dalla coltivazione delle 48 piante, qualificando quest’ultima come un illecito amministrativo e non come un reato. La Corte aveva osservato che la coltivazione era rudimentale e confinata in uno spazio limitato, con una produzione di principio attivo molto modesta, compatibile con un uso esclusivamente personale.

La sentenza della Cassazione conferma un principio già espresso in precedenti decisioni: la coltivazione domestica di marijuana, se modesta e destinata all’autoconsumo, non è punibile penalmente. La decisione rappresenta un importante punto di riferimento per casi simili, sottolineando l’importanza di valutare le circostanze specifiche di ogni caso, in particolare la destinazione della sostanza e l’assenza di indici di vendita.

Con questa sentenza, la Cassazione ha quindi chiuso il caso oggetto del ricorso, confermando che la condotta dell’uomo non costituiva reato, ma un illecito amministrativo.



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