ma la morte non è mai cura

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Le persone malate che soffrono a tal punto nel corpo e nello spirito da pensare alla morte come resa al dolore muovono in noi una profonda pietà. Un bisogno di appassionata vicinanza che ci tocca il cuore, una voglia di conforto per tutto ciò che resta possibile fare, e dire, ed essere, essere soprattutto, in accompagnamento solidale. Lenire il dolore, trattarlo, sopprimerlo il più possibile, è dovere umano. E non è fatto di sole cose, di analgesici e di anestetici necessari, è fatto di presenza, è fatto di cura, di accompagnamento, di comprensione profonda. Ma quanta differenza, quanta irritazione ci prende per l’ipocrisia di chi brandisce il dolore malato come prototipo d’un male che può troncarsi nel suicidio, prototipo anch’esso di una ideologia libertaria che ispira un volontariato di aiuto alla morte.

Chi dice che l’aiuto alla morte suicida è stato sdoganato dalla sentenza n. 242 del 2019 della Corte costituzionale, mente. Esso resta un delitto, che in casi d’eccezione non è più punibile, se fuor d’ogni istigazione è volto a un soggetto pienamente capace che ha una patologia irreversibile, fonte di intollerabili sofferenze fisiche o psicologiche, ed è tenuto in vita da trattamenti di sostentamento vitale. Ma perché chi l’aiuta vada esente da pena, occorre naturalmente che tali condizioni siano accertate; e per questa indagine di verità (che servirà agli aiutanti del suicida) il compito spetta naturalmente a una struttura sanitaria pubblica. La cui funzione comincia e finisce lì, senza nessuna fantasia d’un suicidio inserito fra i trattamenti sanitari, come fosse una “morte terapeutica” pagata con pubblico denaro. Quanta irritazione allora, l’ipocrisia di chi ritiene dettato l’obbligo del servizio nazionale di dare il farmaco e la macchina della morte.

C’è poi un pensiero che ci prende con una punta di macabra amarezza, se ci aggiriamo nella biblioteca della morte senza spiragli di senso. Se una persona malata nelle condizioni così disperate e dolenti descritte nei testi giuridici citati decidesse di cessare le cure che la tengono in vita, e senza le quali morrebbe, nessuno potrebbe impedirlo. Lo dico dal lato giuridico, perché la legge n. 219 del 2017 dice appunto così: se il malato dice basta neppure la terapia salvavita può essere più proseguita. Con questo la legge non vuole che sia abbandonato, dice anzi che il medico promuove ogni azione di sostegno al paziente, anche con assistenza psicologica. Ma se quello rifiuta le cure, basta. Dal lato etico, non tocca a noi giudicare se simili scelte individuali rispondano ai criteri morali di fondo (proporzionalità, beneficialità, rifiuto di accanimento), ferma la predilezione per la cura, poiché in ultima istanza è la coscienza dell’interessato a decidere. E c’è differenza tra il voler morire e il lasciare che la vita segua il suo corso conclusivo, senza più l’artificio di un prolungamento precario e penoso.

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In questa prospettiva si rivela però un paradosso, che riflette il punto debole, o meno convincente, della motivazione della sentenza 242 della Consulta, quando definì ragione della preferenza soggettiva per il suicidio la preoccupazione del malato, che già potrebbe lasciarsi morire, di non far soffrire i familiari nel preludio di morte che il suicidio renderebbe brevissimo. Ma ecco il paradosso: un malato senza più sostentamento vitale va incontro a palliazione, eventuale sedazione continua che non accelera la morte ma ne rende indolore il momento, in pochi giorni secondo i casi. Un paziente che vuol accedere al suicidio assistito deve far istanza d’un procedimento per la verifica medica dei requisiti specifici, l’accertamento della volontà manifestata, l’adeguata informazione, le soluzioni alternative, in specie le cure palliative e la sedazione. E l’iter così messo in moto si andrà poi sviluppando nella formazione di un fascicolo di atti rimesso al comitato etico, quale soggetto terzo per la verifica di conformità.

A bruciare i tempi (ipotesi irreale) i termini minimissimi dicono un mese; la realtà dei (pochi) casi già verificati dice mesi e mesi. E nel frattempo i familiari, in attesa di fruire dell’abbreviazione del dolore del distacco durante il tempo di suicidio, avranno penato l’angoscia del protrarsi della sofferenza del congiunto, di natura insopportabile per definizione, per mesi e mesi. Dunque anche nel punto focale c’è una mistificazione.

Allora diviene poco sopportabile l’insistenza di taluni coadiutori della morte che propongono alle Regioni testi di legge sul suicidio assistito che, secondo l’articolato dei soci Coscioni, innestano il servizio suicidiario nelle prestazioni della salute, veleno e macchinario e tutto compreso. La cronaca odierna registra la prima approvazione da parte di un Consiglio regionale, quello di Toscana. E dà una singolare amarezza che ciò avvenga nella terra delle Misericordie: e ancor più stringe il cuore che ciò coincida con la Giornata mondiale del Malato.

Quanto distanti da questa vicenda disgregante, che finge esecuzione dell’invito della Consulta a legiferare (invito fatto al Parlamento nazionale, non ai Consigli regionali) e prenota di finire nel cestino dell’incompetenza, quanto distanti, dico, le tre parole che danno vita al Messaggio del Papa, pensando ai malati del mondo: incontro, dono, condivisione. Il contrario della cadaverica esultanza per una Sanità che si fa ancella della morte.





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