Non passa più giorno senza che arrivi un’ennesima notizia sul fronte del risiko delle banche italiane. L’effetto domino negli ultimi mesi è stato scatenato dal completamento (quasi) della privatizzazione di Monte Paschi. Il Tesoro ha venduto a novembre una quota del 15%, di cui Banco Bpm se n’è aggiudicato un terzo, prospettando l’integrazione tra i due istituti. Subito è arrivata la contromossa di Unicredit con il lancio di un’Offerta Pubblica di Acquisto su Piazza Meda. Il CEO, Andrea Orcel, ha altresì ribadito il disinteresse per Siena.
Tante operazioni in corso
A questo punto, il governo vede saltare i piani sulla formazione del terzo polo bancario. Ed ecco la reazione di poche settimane fa: Offerta Pubblica di Scambio di Monte Paschi rivolta agli azionisti di Mediobanca. Analisti divisi, Piazzetta Cuccia spiazzata e irritata per un’operazione che boccia e definisce “ostile”.
Nel frattempo, Unicredit acquisisce il 4% di Generali, compagnia controllata da Mediobanca al 13,10% del capitale. Un modo, si vocifera, per massimizzare il potere negoziale verso il governo riguardo all’ipotesi ventilata di uso della “golden power” per l’affare BPM. Essendo le banche italiane “asset strategici”, il governo può teoricamente bloccare un’operazione che le coinvolge.
Generali stessa non era rimasta a guardare. Sempre a gennaio annunciava l’accordo preliminare con Natixis, asset manager francese per la gestione del risparmio. Obiettivo: la creazione di una joint venture paritetica per la gestione di quasi 2.000 miliardi di masse, di cui 650 miliardi portate in dote proprio da Trieste. Il governo non apprezza, perché teme che i risparmi domestici vadano a finire in Francia o, comunque, all’estero. Philippe Donnet, in corsa per il quarto mandato, nega e assicura che non cambierà nulla neanche per gli investimenti in titoli di stato italiani.
E venerdì scorso arriva l’ennesima mossa per il risiko delle banche italiane.
BPER lancia un’Offerta Pubblica di Scambio sulla Popolare di Sondrio: 1,45 azioni di nuova emissione contro 1 azione dell’istituto nel mirino, che si traduce in un’operazione dal controvalore massimo di 4,3 miliardi. Dietro vi è Unipol di Carlo Cimbri, titolare di entrambi gli istituti con quasi il 20% del capitale in ciascuno di essi. La compagnia emiliana sembrava interessata a Monte Paschi, ma ha tentennato un po’ troppo prima di dichiararsi e forse ha temuto di non essere gradita al governo di centro-destra, essendo storicamente l’assicuratrice delle coop “rosse”.
Tanti risparmi, pochi prestiti
Non si vedeva tanta vivacità sul panorama bancario italiano da fine anni Novanta e inizi anni Duemila. A cosa si deve un simile fermento? Le banche italiane sono ancora oggi relativamente piccole nel confronto internazionale. Ciò non sta impedendo a Unicredit di tentare l’assalto alla tedesca Commerzbank, anche se l’establishment teutonico si mostra contrario. I depositi tricolori traboccano di liquidità. Ne disponevano per oltre 1.825 miliardi a dicembre, escluse le obbligazioni bancarie. Un importo nettamente superiore ai prestiti per appena 1.644 miliardi, di cui solamente 1.411 miliardi rivolti all’economia reale (imprese e famiglie).
Le banche italiane saranno senz’altro brave, in questa fase, a giocare a risiko tra di loro. Molto meno lo sembrano quando si tratta di sostenere gli investimenti delle imprese e gli acquisti durevoli delle famiglie. C’è un gap di oltre 400 miliardi tra i risparmi dei clienti e i prestiti erogati. Si eccepirà, non a torto, che non è loro compito sostenere l’economia. Sono aziende private, che hanno quale unico obiettivo di fare utili, prestando denaro a tassi superiori rispetto a quelli pagati ai risparmiatori e a coloro che sono in grado di restituirlo regolarmente.
Tutto vero, ma alla luce di questi dati il risiko delle banche italiane appare meno entusiasmante. L’aumento delle dimensioni medie giova senz’altro ad irrobustire gli istituti, sebbene non per questo i territori riceveranno maggiori prestiti. Al contrario, l’allontanamento delle piccole banche locali e spesso di natura popolare può portare ad ignorare il tessuto imprenditoriale che vi opera. Esso richiede una profonda conoscenza delle attività, spesso diretta, che rischia di perdersi con l’ingrandimento dimensionale e l’accentramento decisionale in luoghi sempre più distanti.
Banche italiane sempre più distanti
E’ giusto che il mercato faccia il suo corso, che l’istituto x compri l’istituto y se così decideranno gli azionisti. Ma non illudiamoci che tutto ciò comporti necessariamente benefici per chi sta dall’altra parte degli sportelli. C’è la sensazione che le imprese dovranno elemosinare come prima e più di prima per ottenere un prestito o anche un semplice fido e che l’accesso ai mutui per le famiglie resteranno difficoltosi come sempre. Le banche italiane stanno giocando a chi ce l’ha più grosso, ma questo con le esigenze del mercato c’entra davvero poco.
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