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Nel campo alimentare fattori legati alle tradizioni culturali (come in questi giorni di feste natalizie) e fattori psicologici, spesso abilmente strumentalizzati dalla politica, giocano un ruolo chiave nell’orientare l’opinione pubblica e difendere interessi che raramente corrispondono a quelli della comunità e più spesso coincidono con quelli delle potenti lobby alimentari. Una comunicazione manipolata analoga a quella utilizzata in passato dall’industria del tabacco e, più recentemente, da quella dei combustibili fossili, viene spesso impiegata anche dall’industria della carne e del pesce contro chi propone delle alternative vegetali o propone una dieta cruelty-free, presentati come portatori di teorie complottiste e pseudo scientifiche create ad arte contro l’”eccellenza” del Made in Italy. È questo il quadro che è emerso dall’indagine “I nuovi mercanti del dubbio”, pubblicata dalla fondazione Changing Markets, ricerca nata con l’obiettivo di favorire un’economia più sostenibile e di denunciare le pratiche irresponsabili portate avanti dai grandi produttori di carne e latticini che spesso lavorano per impedire una complessiva strategia di controllo delle emissioni di gas serra nell’industria alimentare. Per i ricercatori di Changing Markets “Porte girevoli, conflitti di interessi e accesso privilegiato ai principali politici consentono all’industria globale dell’allevamento di bloccare il monitoraggio e la regolamentazione delle emissioni. […]. I giganti del settore abusano del controverso parametro del Potenziale di riscaldamento globale (GWP) del metano per minimizzare l’impatto climatico del bestiame, finanziando gli scienziati per gettare fumo negli occhi dei politici”. Si tratta perlopiù di tattiche di greenwashing e disinformazione mirata alla Gen Z, che con massicci investimenti in marketing e comunicazione, portati avanti soprattutto attraverso i social network, sono finalizzate a confondere le idee, deviare l’attenzione da ciò che più conta, far rimandare le decisioni necessarie per rendere meno impattante il sistema alimentare. Considerato che attualmente circa un terzo delle emissioni totali di gas serra proviene da questo settore e, di questa quota, “Circa il 60% proviene dall’agricoltura animale, che da sola costituisce la più grande fonte di emissioni di metano prodotte dall’uomo” è evidente “L’urgente necessità di una legislazione più severa sull’industria della carne e dei latticini”.

L’indagine ha rivelato in modo evidente il potere dei gruppi di lobby della carne che combattono per evitare una legislazione meno favorevole nei loro confronti rispetto ai limiti di emissioni di gas serra. Minori finanziamenti o maggiori restrizioni per questo settore, infatti, rischierebbero di favorire una più diffusa adozione di abitudini alimentari a base di proteine vegetali, dieta ormai universalmente considerata più adatta alla nostra salute oltre che ad evitare il surriscaldamento globale. Il caso studio dedicato da Changing Markets al nostro paese è emblematico. Quando lo scorso novembre il Governo Meloni non solo ha chiuso la strada alla carne creata in laboratorio, subdolamente definita “sintetica”, ma ha anche imposto il divieto alla denominazione di “carne” per i prodotti trasformati contenenti proteine vegetali, la campagna mediatica di politici e lobby ha fatto propri molti pregiudizi e veicolato molta disinformazione, tanto che i ricercatori, durante questo periodo e solo in Italia, hanno rilevato “240.000 post sui social media contenenti disinformazione, con 1,27 milioni di engagements e 125.000 account diversi che hanno contribuito a questa discussione” nel nome della “Protezione della nostra cultura e della nostra tradizione”. Dallo studio emergono quindi “Picchi di disinformazione che sembrano strategici, sincronizzati proprio con la conferma del divieto di produzione di carne coltivata” e non stupisce sapere che oggi, anche a livello globale, secondo lo studio Meat and morality: The moral foundation of purity, but not harm, predicts attitudes toward cultured meat”, pubblicato in giugno da Matti Wilks dell’università di Edimburgo, Charlie Crimston dell’Australian National University e Matthew Hornsey dell’università del Queensland, “Le persone che affermano di vivere una vita sana è moralmente attenta sono più propense a rifiutare la carne prodotta in laboratorio, nota anche come carne coltivata, rispetto a coloro che non la pensano così”.

Questo studio sulle opinioni cresciute in questi ultimi anni nei confronti della carne e della carne di pesce coltivata a partire da cellule animali come alternativa all’allevamento intensivo ha scoperto che “Coloro che dichiaravano di avere maggiore interesse per il valore morale della vita degli animali erano meno propensi a credere che la carne coltivata fosse buona e più propensi a considerarla innaturale”. Wilks e Crimston, che hanno intervistato più di 1800 adulti negli Stati Uniti e in Germania sulle loro percezioni e atteggiamenti nei confronti della carne coltivata e sui loro valori morali in generale, sono convinti che “I sentimenti e le questioni etiche personali potrebbero spingere le persone a opporsi alla carne prodotta in laboratorio, un’industria emergente il cui valore stimato è di 3,1 miliardi di dollari”. I risultati dimostrano quindi che “Oltre alle sfide normative che l’industria in via di sviluppo della carne coltivata deve affrontare, potrebbe essere necessario superare alcuni atteggiamenti dei consumatori affinché questa venga più ampiamente accettata”. Quel che ha sorpreso maggiormente i ricercatori è stato il fatto che i partecipanti che avevano affermato che la crudeltà e l’insostenibilità erano fattori morali importanti nel loro processo decisionale, non hanno mostrato maggiore entusiasmo per la carne coltivata. Un risultato che è andato contro le previsioni dei ricercatori, secondo cui la carne coltivata in laboratorio dovrebbe essere “Una prospettiva allettante per le persone che credono che sia moralmente importante ridurre al minimo i danni ambientali prodotti dagli allevamenti”.

È chiaro che oggi, anche grazie a processi comunicativi manipolati ad arte, la carne coltivata non viene ancora considerata come un potenziale modo per affrontare alcune delle preoccupazioni etiche e ambientali associate all’allevamento intensivo. “Il ruolo dell’emozione nel rifiuto della carne coltivata – hanno concluso i ricercatori – dimostrano la necessità di una discussione più sfumata e di una comprensione più approfondita delle preoccupazioni dei consumatori in merito alla carne coltivata e ai valori che le sostengono”.

Sono Alessandro, dal 1975 “sto” e “vado” come molti, ma attualmente “sto”. Pubblicista, iscritto all’Ordine dei giornalisti dal 2009 e caporedattore per il portale Unimondo.org dal 2010, per anni andavo da Trento a Bologna, pendolare universitario, fino ad una laurea in storia contemporanea e da Trento a Rovereto, sempre a/r, dove imparavo la teoria della cooperazione allo sviluppo e della comunicazione con i corsi dell’Università della Pace e dei Popoli. Recidivo replicavo con un diploma in comunicazione e sviluppo del VIS tra Trento e Roma. In mezzo qualche esperienza di cooperazione internazionale e numerosi voli in America Latina. Ora a malincuore stanziale faccio viaggiare la mente aspettando le ferie per far muovere il resto di me. Sempre in lotta con la mia impronta ecologica, se posso vado a piedi (preferibilmente di corsa), vesto Patagonia, ”non mangio niente che abbia dei genitori”, leggo e scrivo come molti soprattutto di ambiente, animali, diritti, doveri e “presunte sostenibilità”. Una mattina di maggio del 2015 mi hanno consegnato il premio giornalistico nazionale della Federazione Italiana Associazioni Donatori di Sangue “Isabella Sturvi” finalizzato alla promozione del giornalismo sociale.

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