Sanremese-Imperia: la libertà d’azione e la sua spinta propulsiva

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Ci sono campi, città e partite che soltanto una congiunzione astrale può farti scoprire. Lontani, difficili da raggiungere, ardui nel vedere impegnate due tifoserie a confronto. Il “Comunale” di Sanremo è senza dubbio uno di questi e, francamente, neanche era nei miei piani in questa stagione. Sempre difficile trovare lo spunto giusto nei gironi dell’estremo nord, dove le tifoserie sono poche e spesso provate da anni di anonimato sportivo, in contesti dove è davvero difficile resistere e dare linfa nuova alle generazioni che si avvicendano. Certo, la partita con l’Imperia non è mai banale. Un derby che anche nel 2025 e anche nell’infausto turno infrasettimanale è capace di chiamare sulle gradinate un’ottima cornice di pubblico e dar luce a una signora battaglia fra le due fazioni ultras.

Ma andiamo con ordine: appurato, un paio di giorni prima, che i “maestri” dell’Osservatorio sul Nulla non hanno posto particolari limitazioni, permettendo ai tifosi nerazzurri di acquistare i biglietti, organizzo in fretta e furia il difficile viaggio verso la Riviera dei Fiori: pullman fino a Firenze, altro pullman fino a Genova e da lì treno regionale fino a Sanremo. Un incastro di orari e mezzi tutt’altro che semplice, ma che alla fine mi permette di viaggiare a prezzi modici e, nella mia follia, divertirmi anche. La giornata è di quelle belle, con il cielo terso e un bel sole che si specchia sul Mar Ligure, mentre il treno lentamente cammina lungo la costa, singhiozzando e fermandosi di tanto in tanto. Da che ne abbia ricordi, i problemi, i rallentamenti e le soppressioni in questa porzione di ferrovia sono un vero e proprio classico. Del resto il territorio ligure resta uno dei più ardui su cui costruire e manutenere infrastrutture e vie di comunicazione, ma il risvolto della medaglia è il bellissimo scenario che il contrasto mare/montagna è pronto a offrirmi metro dopo metro, lenendo la stanchezza della notte parzialmente insonne e dandomi la spinta per iniziare la giornata, una volta sceso nella “nuova” stazione di Sanremo, che dal 2001 ha sostituito il vecchio edificio posto in riva al mare, andando ad adeguarsi all’interramento di una parte del tracciato. Oggi l’antico fabbricato (inaugurato nel 1872) resta ancora in piedi, situato sulla pista ciclabile che, da diversi anni, sostituisce proprio la ferrovia dismessa. Nessuno me ne voglia, ma pur comprendendo la logica di questo cambiamento, devo ammettere che la stazione attuale esteticamente non è proprio il massimo, senza contare che per raggiungere le banchine occorre praticamente fare una sessione di trekking urbano, considerata la distanza!

Ora, vorrei parlarvi innanzitutto delle antiche origini di questa centro rivierasco, vorrei approfondire il perché i suoi abitanti e la sua tifoseria vengano sovente appellati come “matuziani” e vorrei pure parlarvi con entusiasmo di una compagine storica come quella biancazzurra, ma non posso negare che la mia sfaccettatura nazionalpopolare e a tratti trash, mi conduca innanzitutto davanti al Teatro Ariston. Ancor prima di salire nel pittoresco centro storico della Pigna, ancor prima di affacciarmi sul Lungomare e solo dopo – ovviamente – aver fatto colazione con diversi pezzi di focaccia. Passo davanti all’altrettanto celebre Casinò e tiro dritto su Corso Matteotti, calpestando letteralmente le targhe che celebrano tutti i vincitori del Festival dal 1951 a oggi. Ammetto che passare da mostri sacri della musica italiana a menestrelli/e urlatrici per cui nutro davvero poca stima, fa un certo effetto e mi restituisce appieno il declino culturale e canoro del nostro Paese. Ma tant’è. Personalmente ho sempre legato il Festival a figure come quelle di Luigi Tenco, che qua – pagando con la propria vita – hanno lasciato aperto il vaso di Pandora di un certo mondo dello spettacolo, ponendo arbitrariamente fine al proprio talento e rimanendo scolpiti eternamente nella storia e nel significato di un evento che, fino a qualche decennio fa, ha cresciuto e appassionato milioni di italiani, vogliosi di riprendersi dalle macerie del dopoguerra prima e sulle ali del boom economico degli anni ’60 poi. Ovviamente non posso ignorare la statua del buon Mike Bongiorno, accennando un sorriso al pensiero dei diversi cori goliardici che le curve italiane gli hanno dedicato.

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Quando mi inerpico verso l’antico centro storico, gradualmente osservo tutta la diversità tra i due nuclei cittadini: da passeggio, borghese, quasi francese oserei dire, sicuramente chic e in bella mostra ai riflettori dello spettacolo la parte bassa, più autentica, affascinante e profondamente ligure quella alta, la Pigna, per l’appunto. Così chiamata per la sua conformazione arroccata sulla collina, una delle tipiche edificazioni per contrastare le molteplici incursioni marinare – soprattutto ad opera dei saraceni – del passato. La “distanza” tra Corso Matteotti e le viuzze del centro storico è data dai tantissimi accenti stranieri che si odono sul primo, mentre nel secondo le signore anziane passeggiano inveendo contro la pendenza delle scale in dialetto sanremese. Inutile dire quali tra le due situazioni mi affascini di più! Sebbene questo centro popolato da oltre 50.000 abitanti (più grande anche del capoluogo e secondo solo a Savona nella Riviera di Ponente) sia noto per il Festival e per essere il traguardo della celebre corsa ciclistica Milano-Sanremo (una delle più antiche del Vecchio Continente, con la prima edizione disputata nel 1907), il suo insediamento ha origini antichissime e in epoca romana assunse un notevole importanza, anche grazie all’arteria che l’attraversava, quella Via Julia Augusta costruita come prosecuzione della Via Aurelia e fondamentale per inoltrarsi in territorio transalpino. Facevo cenno all’appellativo di matuziani, con il quale sono tutt’oggi conosciuti i sanremesi. Un nome che deriva dai primordi della città, quando Caio Matutio decise di erigere la Villa Matutia (situata a poca distanza dall’attuale Casinò), dando il la allo sviluppo urbanistico di quella che nel medioevo poi muterà in Sanremo, legando il suo nome a San Romolo, un cardinale genovese che trascorse grossa parte della sua vita nei boschi del circondario. La trasformazione del nome da “Romolo” a “Remo” avvenne a causa delle tipicità fonetiche della lingua ligure, in particolare per la cadenza tipica del territorio di ponente di rendere la “o latina” in “ö”. Di conseguenza, la dizione ligure di “Romolo”, ossia “Romu”, sarebbe stata pronunciata come “Rœmu” e quindi traslata, con il tempo, in “Remu”, ossia “Remo”.

Senza voler tediare il lettore con una digressione storica troppo prolungata, concludo sottolineando come il miscuglio di questi luoghi, che senza dubbio recepiscono anche gli influssi di una frontiera distante appena trenta chilometri ma esaltano tradizioni e modus vivendi tipici del ponente ligure, preservi davvero un fascino tutto suo e vada ben oltre il cliché che Sanremo si è costruita nell’ultimo secolo. In questo quadro, per i meno avvezzi, può anche sembrare strano che il calcio abbia sempre giocato un ruolo fondamentale. E probabilmente questo era uno degli aspetti che più mi incuriosiva, ricordando da piccolo il club matuziano “ospite” fisso dell’album Panini, tra i professionisti. Quando manca un’ora e mezza al fischio d’inizio ripasso per l’ultima volta davanti all’Ariston e mi avvio verso lo stadio. Su muri, pali e cartelli a più riprese noto adesivi degli ultras locali, cosa che mi conferma non solo la loro presenza sul territorio, ma anche una discreta tradizione che, a memoria, ricordo sia attraverso le pagine di Supertifo che in diversi scatti recenti e passati. Il “Comunale” è uno di quegli impianti che non possono non far strabuzzare gli occhi a chi ama un certo tipo di calcio: bellissimo da fuori, con la sua tribuna coperta che in parte richiama il “Louis II” di Montecarlo e in parte lascia intendere l’opulenza di una tale opera architettonica. Basti pensa che, originariamente, in molti soprannominarono l’impianto come “Stadio dei Milioni”, ironizzando sugli oltre due milioni di Lire spesi tra il 1930 e il 1932. Un’opera che richiese un fine lavoro di ingegneria per livellare il terreno che al tempo declinava verso il mare e necessitava, dunque, di essere messo in piano. L’arco monumentale che si presenta all’ingresso, parte delle tribune in marmo di Carrara e l’intero sapore classicheggiante che lo contraddistinguono, spiegano anche il perché lo stesso presidente della Fifa di allora, nientepopodimeno che Jules Rimet, si occupò in prima persona dei lavori. Vederlo oggi, in alcuni tratti lasciato a se stesso e tenuto non proprio benissimo, ci racconta, invece, quanto nell’Italia del 2025 non ci sia la minima cultura di veri e propri templi dello sport nazionale. Luoghi costruiti per ospitare folle e squadre a rappresentanza di una città. Il “Comunale” al momento della sua inaugurazione (28 ottobre 1932, in concomitanza con la Marcia su Roma) era pensato come struttura polifunzionale, cosa molto in voga all’inizio del novecento.

Qua la Sanremese ha scritto pagine indelebili della sua storia, partecipando a tre tornei di Serie B negli anni trenta, a oltre trenta campionati professionistici tra Serie C, C1 e C2 (l’ultimo dei quali nel 2010/2011) e sfidando piazze storiche del calcio italiano. Quegli anni oggi sembrano lontanissimi per i supporter matuziani, con una squadra che arranca a metà classifica e una società che non sembra avere grandi ambizioni, eppure la fede arde sotto delusioni e contestazioni, testimone ne è il manipolo di ragazzi che si ritrova sul vialone che porta gli ingressi, inscenando un corteo con bandiere e bandieroni e tentando di riscaldare l’ambiente. Il numero di mezzi e forze dell’ordine a presidio dello stadio è imponente, e la massiccia e consuetudinaria opera di “terrorismo mediatico” ha fatto il suo nei giorni precedenti. Ma considerato il momento di proibizionismo che viviamo in tema stadi e trasferte, bisogna dirsi persino molto soddisfatti per l’apertura del settore ospiti. Quella con Imperia è la rivalità con la R maiuscola, che affonda il reciproco odio in radici che vanno ben oltre il pallone e trovano la loro cartina al tornasole nelle storiche dispute tra il “giovane” capoluogo (istituito nel 1923 dall’unione di Oneglia e Porto Maurizio) e la Città dei Fiori. Campanilismo, allo stato puro. L’essenza del nostro calcio, malgrado i colpi mirati di un sistema che vorrebbe scientemente uccidere tutto ciò a colpi di restrizioni e politicamente corretto.

Dopo aver osservato con attenzione lo stadio all’esterno, ritiro l’accredito e mi appropinquo verso l’entrata, proprio in concomitanza con gli ultras di casa. I carabinieri controllano minuziosamente ogni spettatore e – appurato che nessuno sia in possesso di una P38 o di una bomba nucleare – li lasciano entrare alla spicciolata. In pochissimo tempo guadagno l’accesso sul terreno di gioco, non potendo far a meno di osservare lo stuolo di gagliardetti appesi nel corridoio che conduce agli spogliatoi e i murales scrostati in cui si celebrano i trofei vinti dal club. A Imperia sono stati venduti 130 biglietti, un numero sicuramente più che buono considerato il giorno infrasettimanale e l’orario penalizzante (anche all’andata si giocò di mercoledì, il cattivo pensiero che certe cose vengano decise a tavolino per disincentivare il grande pubblico è più che peregrino!). Un numero che sottolinea ulteriormente come questa partita sia sentita, ma anche quanto la cultura ultras sia radicata in queste due piazze. Una cultura che abbraccia anche una storia di tutto rispetto: a Sanremo l’eco dei grandi gruppi organizzati, da poco nati nelle città lombarde e piemontesi, arriva già all’inizio degli anni settanta, con l’apparizione – nel 1975 – del primo striscione ultras, quello dei “Commandos”, avente al centro un simbolo molto in voga all’epoca: il teschio con le tibie incrociate. Curiosità: prima che questo striscione venisse confezionato, la scritta appariva formata da lettere di cartone. Il gruppo nasce nella parte superiore della tribuna – dove tutt’oggi è posizionato il tifo caldo sanremese – e successivamente si sposta nella curva realizzata dietro la porta (abbattuta poi nel 1987, in seguito alla retrocessione dalla C2 alla D). I primi germogli ultras, di concerto con una società alquanto difficile e funestata dagli Anni di Piombo, portano con sé turbolenze e acredini. Nella memoria storica dei supporter biancazzurri resta scolpita la trasferta di Carrara, nella vittoriosa stagione di Serie C2 1978/1979. Un match culminato con pesanti scontri in campo con i carrarini. L’anno successivo si registrarono turbolenze con i cremonesi, cosa che portò a stringere una sentita amicizia con i ragazzi di Piacenza. Negli anni ottanta sorgono varie insegne, tra cui gli “Ultras”, che danno ancor più un’impronta inquadrata e organizzata. Gli stessi si scioglieranno sul finale del decennio, con il fallimento del club e la ripartenza dai dilettanti. A questo punto la “Fossa Matuziana” prenderà in mano le redini della situazione e poi, a metà ’90, ricreerà il gruppo con la dicitura “Ultras”. Il nuovo millennio porta altre importanti sigle sugli spalti del “Comunale”: nascono i “Kaos”, i “Matuzia 1904”, la “Nuova Guardia” e i “Cani Sciolti”. Mentre a oggi la tifoseria si riconosce dietro la data “1904”, con cui si è scelto orgogliosamente di unire tutte le componenti e legarle all’anno di fondazione del club.

Chi ha la pazienza di leggere i miei racconti sa bene che sono solito dedicare ampio spazio a tutto quello che riguarda la squadra e la tifoseria di casa. Questa è una scelta oculata, che ha come obiettivo quello di approfondire una realtà, non certo quello di snobbare o denigrare gli ospiti. Narrare una piazza tra le sue mura amiche, nella sua città e nel suo stadio è senza dubbio la sintesi perfetta di tutti gli elementi. Ciò per dire che occorrerebbe aprire un capitolo lungo e dettagliato anche sulla tifoseria imperiese, la quale certamente può vantare un trascorso di tutto rispetto e una storia ultras tra le più longeve e importanti della regione. Mi riprometto di farlo alla mia prima visita al “Nino Ciccone”, altro impianto che mi incuriosisce e del quale mi farebbe piacere parlare, ponendolo al centro del contesto narrativo. Imperia, tuttavia, mi rimanda sempre la mente allo storico gruppo dei “Samurai Ultras”, un nome a dir poco unico e originale all’epoca come oggi. Un gruppo che ha tracciato anche un evidente solco nella militanza dei nerazzurri, che in questi anni non si sono mai tirati indietro in fatto di presenze e seguito, malgrado un club che negli ultimi due lustri ha conosciuto soltanto due stagioni di Serie D, arrancando nel dilettantismo ligure e vedendo distante addirittura un quarto di secolo l’ultima partecipazione a un campionato professionistico (Serie C2 1999/2000, retrocessi dopo aver perso il playout con il Novara). Un discorso che vale per entrambe le tifoserie: quando parliamo di realtà collocate in queste aree geografiche, va sempre tenuto conto l’immane difficoltà esistente rispetto a molte piazze centro/meridionali o ad alcune aree geografiche del settentrione (Veneto ed Emilia su tutte): Imperia e Sanremo, così come tante altre tifoserie impegnate nei campionati dilettantistici del Nord, può veramente contare solo ed esclusivamente sull’appoggio, la forza e la costanza di un manipolo, al cospetto di realtà sociali che spesso sono composte da molte persone provenienti da fuori e che, giocoforza, non possono rientrare nel discorso stadio, identitario e d’appartenenza. Mettiamoci anche che quasi sempre incappano in gironi avari di tifoserie, dove il confronto con l’avversario è sovente nullo e gli stimoli rischiano seriamente di azzerarsi.

Quando mancano una manciata di minuti al fischio d’inizio, ecco i tifosi ospiti fare il loro ingresso, per poi sistemarsi dietro allo striscione “Ultras”, che dalla stagione 2015/2016 ha avuto l’obiettivo – e il merito – di ricompattare l’ambiente imperiese, dopo la sospensione, nel 2013, dei “Samurai”. Un drappo su cui campeggia la data del “1977”, a indicare gli albori del movimento ultras nerazzurro. Vengono “salutati” dai sanremesi con uno striscione eloquente, che apre le danze a diversi messaggi scambiati da una parte all’altra, fomentati anche dalla presenza dei savonesi tra le fila ospiti. Le schermaglie si aprono anche da un punto di vista corale e si capisce che l’ambiente è “frizzante”, stimolato da una bella voglia di sovrastare il dirimpettaio. Guardo ancora una volta compiacente le gradinate, con il baretto della tribuna scoperta che incanala tutta la mia attenzione grazie alla sua struttura retrò, sembra quasi una vecchia casa cantoniera. A questo punto la contesa può iniziare: i matuziani accolgono le squadre in campo con una bella sbandierata. Scelta che personalmente trovo sempre vincente, perché semplice e intramontabile. Tra l’altro molto belle le bandiere con i colori sociali inframezzati da una striscia blu notte. Malgrado durante la sfida per la Sanremese maturerà una sconfitta abbastanza netta, il tifo del settore merita assolutamente una promozione a pieni voti: voce e mani per tutta la partita, bandiere al vento, sciarpata all’inizio della ripresa e numerosi striscioni nei confronti degli avversari. Ammetto che conoscevo ben poco la piazza matuziana – se non per quanto visto negli anni da giornali e internet – eppure oltre a evidenziare la loro bella figura in fatto di tifo, devo dire che si percepisce appieno la non casualità della stessa. Sì, è vero, in queste circostanze i numeri lievitano e anche chi è meno abituato a frequentare lo stadio si mette a disposizione della causa. Tuttavia, se non ci fosse un retroterra, una sorta di “riconoscimento” cittadino per la “Sanre” e il suo tifo organizzato, questo non potrebbe accadere.

Discorso simile per i ragazzi di Imperia, che sfoderano una gran performance per tutti i novanta minuti. Anche per loro una bella sciarpata nel primo tempo, un paio di bandiere sempre al vento e diversi striscioni tirati fuori. Ci tengo a sottolineare quest’ultimo aspetto perché negli ultimi anni si è spesso perso il fulcro di quello che è un derby: sfottò, provocazione, senso di appartenenza. Spesso si rinuncia allo striscione ironico o a quello volto a rinfacciare questo o quell’altro accadimento. E ovviamente la sfida si svaluta notevolmente. Mi maledico quasi nel non aver tenuto d’occhio il calendario in occasione del match d’andata. Anche perché nel 2025 dire “sarà per il prossimo anno” è a dir poco rischioso, soprattutto al cospetto di organi divenuti ormai giudici sportivi delle tifoserie. Come detto, in campo sono gli ospiti a spuntarla per 1-3. Un successo che manda in visibilio il pubblico nerazzurro e fa scoppiare la contestazione – nei confronto della società – da parte dei matuziani. Ma oltre agli umori contrastanti, quando le squadre rientrano negli spogliatoi c’è ancora spazio per il “terzo tempo” delle tifoserie, che si confrontano a suon di cori e insulti. Si va avanti ancora per un po’, poi anche per me giunge il momento di congedarmi, passando però prima all’interno della tribuna coperta, che con le sue finestre di vetro che danno sul mare mi offre un’altra visione particolare di questa giornata.

Il sole sta cominciando a calare e l’ultima passeggiata, sulla ciclabile in riva al mare, mi permette di respirare a pieni polmoni la salsedine, prima di rientrare in stazione. Anche il viaggio di ritorno sarà “scomposto”: arrivando col treno a Genova, infatti, dovrò attendere un paio d’ore il pullman per Roma. Con la stanchezza che ormai è totale padrona del mio corpo, ma anche la soddisfazione di aver visto due tifoserie, una città e uno stadio “nuovi”, raggiungo Piazza Principe, riparandomi dal fastidiosissimo vento freddo che spira dal mare. Di queste giornate adoro la libertà di aver deciso all’ultimo di partire e mettere in bacheca un’esperienza nuova. L’indomani, giunto a casa, ne sentirò gli odori e le sensazioni, quando mente e corpo cominceranno a riposarsi, mentre il cervello sarà in grado di elaborare quanto visto e cominciare a farsi domande. Di certo non c’è confine per la militanza ultras e per le sue sfumature, questo non smetto mai di impararlo e non smette mai di sorprendermi. Al netto di una quotidianità che viaggia a velocità differente e prende a modello cose, persone e fatti puerili e superficiali, mi tengo la mia infantile passione e la spinta propulsiva che essa riesce ancora a regalarmi sulla soglia dei quarant’anni!

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