di ALBERTO FERRIGOLO
“La professione e l’informazione oggi? È in difficoltà. Dal punto di vista economico, come noto, ma anche nel ritrovare e far capire il proprio ruolo. Nel momento in cui, con i social, l’informazione è ‘nelle mani di tutti’, capire il ruolo di mediazione tra realtà e grande pubblico diventa sempre più difficile. È anche attraverso il riconoscimento del ruolo che passa la strada per il riconoscimento economico del nostro lavoro”.
Così Riccardo Sorrentino, presidente dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia, che a fine 2024 conta 7.844 professionisti e 12.149 pubblicisti, per un totale di 21.688 iscritti, comprensivi d’un paio di società di professionisti, l’elenco speciale, i praticanti e l’elenco dei giornalisti stranieri.
Non c’è troppa commistione tra giornalismo, comunicazione e intrattenimento?
“Sicuramente sì, ma l’impressione è che sia strutturale, difficilmente risolvibile. Il nostro lavoro è in parte attività economica, per altra di tipo politico. La politica passa tramite l’informazione, è da sempre così. In passato c’erano i giornali di partito, ora i politici parlano direttamente col grande pubblico o anche indirettamente attraverso i giornali. A noi spetta il ruolo civico della professione: spiegare e rappresentare la realtà delle cose”.
Cosa fa l’Ordine per contrastare commistioni come l’invadenza della pubblicità?
“L’Ordine ha lo strumento per evitare gli eccessi, che si esca dalla retta via. Da una parte c’è il lavoro del Consiglio di disciplina e il lavoro del nostro Consiglio regionale di segnalazione deontologica: al Consiglio di disciplina spetta la valutazione. Il nostro è molto attivo, ha lavorato bene, ha sempre al centro il tema della libertà d’espressione e d’informazione e non è un Consiglio di disciplina che si muove per sorvegliare e punire i colleghi. Il problema è che non possiamo comunicare fino in fondo le loro decisioni, che sono tante anche in tema di commistione…”.
Perché?
“C’è un problema di privacy. Abbiamo norme estremamente vincolanti, ci sono cause in corso con altri Ordini, non col nostro, quindi dobbiamo far estrema attenzione. Sul piano della commistione con la pubblicità il lavoro che si fa è ampio. Ci sono ad esempio pubblicisti che si sono cancellati per poter fare pubblicità e non possono più dire ‘sono giornalista’. Ci sono poi colleghi pesantemente sanzionati perché continuavano a far pubblicità. Il passo che può fare il Consiglio riguarda la formazione. Per esser sempre più preparati, consapevoli sul piano deontologico, sulle norme, sul ruolo della professione, le materie di cui ci occupiamo. Per formare giornalisti che più difficilmente deraglino”.
Formazione e aggiornamento funzionano?
“In Lombardia abbiamo fatto molti sforzi per evitare di burocratizzare la formazione. Un elemento fondamentale è che i singoli acquisiscano competenze per presentarsi meglio su quel che resta del mercato del lavoro, abbiamo provato a trasformare i nostri corsi in qualcosa di davvero utile”.
È sufficiente?
“No, occorre una riforma fondamentale: in un mondo in cui si possono fare i corsi della Stanford University online non è possibile che quasi solo i corsi col timbro dell’Ordine diano i crediti”.
Un bilancio di fine mandato da Presidente. Quali le cose fatte e su cui vi siete battuti nel triennio?
“Una cosa importante è la questione della cronaca giudiziaria. C’è stato il famoso decreto Cartabia sulla presunzione d’innocenza che ha bloccato tutti i flussi informativi: noi siamo intervenuti con molti strumenti diversi in tutte le procure lombarde. Nel 2022 abbiamo fatto un documento sulla libertà di stampa che s’occupava di questo e a fine mandato, dopo un anno e mezzo di lavoro, siamo riusciti a firmare col Presidente del tribunale di Milano, Fabio Roia, che ha tenuto la barra dritta per tutto il tempo, con la procura guidata da Marcello Viola, l’Ordine degli avvocati, la Camera penale, un documento per la corretta informazione giudiziaria che, in qualche modo, cerca – nel rispetto della legge – di superare tutta una serie di scogli. Chiamiamolo ‘decalogo’, anche se i punti son meno, in cui vengono individuati i criteri per un interesse pubblico giornalistico”.
Che utilità ha?
“Consente ai colleghi d’ottenere dei documenti in base all’articolo 116 del codice di procedura civile. Abbiamo fissato la possibilità che la procura dia spiegazioni, anche informali, ai giornalisti, se non altro per non cadere, in errori di carattere tecnico-procedurale. Si è poi stabilito che il presidente del Tribunale può spiegare le sentenze nel momento in cui vengono emesse senza aspettare le motivazioni. Non è risolutivo, ma è un passo avanti importante. Poi c’è la Fondazione Walter Tobagi per la cultura giornalistica, la formazione e per mettere al centro cultura e ruolo giornalistico”.
Pensi di ricandidarti? Con quali obiettivi?
“Spingere per trasformare sempre più l’Ordine regionale in un presidio per la libertà d’espressione e informazione. È un periodo in cui è cambiato tutto, la libertà d’espressione viene strumentalizzata per obiettivi di parte, spesso ideologici, invece deve diventare uno strumento, un principio civico delle nostre società. Altra cosa importante è aiutare, come già fatto, i colleghi più giovani che fanno giornalismo d’inchiesta, che stanno inventando modi nuovi di fare inchiesta”.
È sempre valida la legge del ’63 che istituì l’Ordine nazionale? Ha ancora un ruolo l’Ordine? Molti non ci credono più…
“All’estero non c’è l’Ordine, ma esistono dei Press Council che si formano quasi sempre, se non sempre, nel momento in cui viene minacciata la libertà di stampa. Nel momento in cui il Parlamento dice ‘faccio io le norme’ su come si devono comportare i giornalisti immancabilmente i giornalisti stranieri rispondono: ‘Ci pensiamo noi’. Che è il modo corretto, se ci deve esser libertà d’informazione. Ecco, l’Ordine è un ente per certi versi sicuramente vecchio, va rinnovato pesantemente. Non so con chi, perché attualmente le forze politiche non hanno particolare passione per giornalismo e giornalisti. Però l’Ordine ha dei punti di forza, cominciando dal fatto che tutti i giornalisti devono esser iscritti. In forma diversa, più agile, rispondente alla realtà della professione, l’Ordine deve restare”.
La riforma dell’Ordine, preparata e varata dall’attuale dirigenza, è efficace? Risponde alle necessità e alle esigenze del momento?
“No, non a tutte. Ma è un esercizio di realismo da parte del Consiglio nazionale, consapevole che una riforma complessiva non poteva essere varata con le attuali forze politiche, sia di maggioranza sia d’opposizione, purtroppo. Bisognerebbe avere una maggiore ambizione, il rischio è che facendo una proposta più ambiziosa cada tutto nel vuoto. Abbiamo cercato d’ottenere una cosa banale come la riforma del sistema elettorale, vecchio e complicatissimo, ma non ci siamo riusciti. Sarebbe bastato veramente poco da parte del Parlamento, c’erano persino progetti identici di maggioranza e opposizione”.
Parlavi dei nuovi giornalisti d’inchiesta. Non andrebbe fatto di più per inserire nell’Ordine le nuove figure professionali, videomaker, fotoreporter, esperti di social nertwork?
“Su questo punto dobbiamo fare molta attenzione: deve essere innanzitutto lavoro giornalistico esclusivo, per i professionisti. L’Ordine nazionale ha preparato delle linee guida per allargare il praticantato, ma il Ministero ha risposto che bisogna rispettare una serie di criteri molto rigidi. Le diverse interpretazioni tra Ordine e Ministero ci hanno permesso di riconoscere il praticantato in alcuni casi molto, ma molto particolari. Però non possiamo fare di più perché altrimenti il Ministero interviene e commissaria l’Ordine”.
È corretto ammettere agli esami “praticanti d’ufficio”?
“Il praticante d’ufficio è qualcuno che ha fatto ufficialmente il praticante, ma il Direttore si rifiuta di attestarlo. L’unica cosa che fa il presidente dell’Ordine è una surrogatoria, avviene ormai da 40 anni. Per le figure che lavorano all’esterno dei giornali va rigorosamente verificato che sia davvero lavoro giornalistico, e lo sia in esclusiva. Possiamo intervenire col contagocce, l’alta vigilanza del Ministero ci impedisce d’aprire le porte”.
Come andrebbero riformati gli esami per renderli più aderenti al mutato contesto?
“Bella domanda… Qualcosa è già stato fatto dall’Ordine nazionale, ora al posto della tesina si possono presentare elaborati sotto forma di prodotti multimediali. Purtroppo l’esame scritto, la scrittura dell’articolo, si rivela necessario perché il livello sembra sia relativamente basso. A me sembrava che se uno fa il praticante per 18 mesi significa che sa scrivere, ma purtroppo in alcune sessioni si son viste persone che hanno difficoltà con il pezzo da 45 righe, perché ne scrivono su internet 10”.
Giornalismo e giornalisti. Si cerca ancora e sempre la verità?
“I giornalisti che incontro a Milano sono giornalisti di grande professionalità, meno ingenui dei giornalisti stranieri. Quelli italiani hanno questo tipo di vantaggio. C’è poi una forte tendenza alla spettacolarizzazione, a stupire invece che raccontare con semplicità. In linea di massima, per quel che vedo, a Milano c’è ancora questo tipo d’attenzione. Ci sono vezzi nel giornalismo italiano che vanno superati e che il tempo e l’Intelligena artificiale ci spingeranno a superare, ma non mi sembra che ci sia un problema così colossale di perdita del valore della professione. Dobbiamo semmai convincere le persone del suo valore, per la società è molto importante”.
Non c’è una tendenza, anche in quotidiani storici, a un’informazione Grand Hotel?
“Un po’ sì, ma dipende dal fatto che da noi non s’è mai distinto tra stampa popolare e stampa civica, che s’interessa dei grandi temi. C’è una tendenza, che andrebbe combattuta, a seguire le metriche d’internet. Dare ai lettori ‘quel che vogliono’, tra virgolette. Il nostro lavoro è invece dare le informazioni necessarie in ciascun settore, non le informazioni che il pubblico vuole. Informazioni che è necessario sapere per essere cittadini informati. Il medico non ci dà quel che vogliamo, ma quel che è necessario. Pur avendo consapevolezza dei gusti dei lettori, dobbiamo dare loro quel che è necessario sapere con la capacità di raccontarlo in modo leggibile, essenziale”.
È completo il lavoro fatto col nuovo codice deontologico o c ‘è altro da mettere a punto?
“S’è fatto un lavoro importante e anche un po’ d’ordine rispetto a prima. Dobbiamo fare una scelta tra il ‘modello tedesco’, in cui il codice deontologico scende a dire come i giornalisti devono fare il loro lavoro, per esempio come trattare un comunicato stampa; e il ‘codice americano’, che ha quattro principi fondamentali, di cui il primo è ‘non far del male’, non usare l’informazione come una clava. Noi siamo un po’ a metà del guado”.
Nelle prossime liste elettorali non andrebbero inseriti candidati più giovani, rappresentativi delle nuove categorie professionali?
“Sicuramente sì. Nel nostro Consiglio abbiamo inserito una giovane giornalista free lance che ci ha avvicinato a un mondo di cui non avevamo consapevolezza. L’Ordine della Lombardia attraverso i suoi gruppi di lavoro è riuscito però a portare al proprio interno tutto un mondo che prima sfuggiva e che sfugge ancora a molti colleghi. Il gruppo di lavoro sul giornalismo d’inchiesta ci ha avvicinato a modalità totalmente nuove”.
È corretto l’equilibrio di rappresentanza tra professionisti e pubblicisti nell’Ordine?
“Penso di sì. I pubblicisti sono fondamentali. Sono la nostra apertura alla società civile. Penso al Consiglio di disciplina che si occupa di questioni giuridiche, ci sono almeno tre figure come un ex magistrato, un ex rettore d’università, un avvocato penalista, e chiaramente il loro apporto è fondamentale nella scrittura delle decisioni, nella valutazione delle prove. Però l’Ordine è di una professione, di chi fa il giornalismo in modo esclusivo. E tra i pubblicisti c’è di tutto. Probabilmente in una riforma ideale dell’Ordine bisognerebbe inserire una figura intermedia”.
Tipo?
“Non c’è più il pubblicista professore d’un tempo, ma è qualcuno che fa giornalismo in maniera non esclusiva. Allora il punto è che gli elenchi dell’Albo riflettano meglio la realtà del mondo giornalistico, a quel punto si può discutere dei diversi pesi… Ma dicendo adesso, come qualcuno vuole fare, aumento il peso dei pubblicisti quando nei pubblicisti c’è di tutto, mi sembra un’operazione non proprio centrata rispetto alle esigenze dell’Ordine”.
Ci sono molte disparità nelle sanzioni per chi non ha fatto la formazione prescritta dalla legge: è problema che riguarda le indicazioni degli Ordini o il funzionamento dei Consigli di disciplina?
“Visto che l’obiettivo è quello di far fare la formazione, la vera sanzione dovrebbe essere un aumento dei crediti nel triennio successivo per chi non l’ha fatta sufficientemente in quello prima. L’altra possibilità sono le pene pecuniarie, ma ci vuole un intervento legislativo. Gli Ordini grandi non riescono ad esaurire per tempo tutte le segnalazioni”.
(nella foto, Riccardo Sorrentino)
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