Albania, la rabbia di Meloni e l’ipotesi danno erariale per il “traghetto” per la Puglia: «Un’operazione costosissima»

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«Non ci fermeremo», dicono da Palazzo Chigi. Contro la «resistenza» e i sabotaggi dei giudici. Ma intanto l’opposizione attacca la «deportazione con soldi pubblici». E la Chiesa chiede di usare quei denari per l’accoglienza

Tanto per cambiare, Giorgia Meloni non ha preso bene la decisione dei giudici di Roma sui 43 detenuti nei Cpr in Albania. La bocciatura della permanenza con rinvio alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea viene accolta con «grande stupore» a Palazzo Chigi. «Non ci fermeremo», assicurano dalla presidenza del Consiglio. E la premier si cala l’elmetto sulla testa e scende in trincea contro le presunte «toghe rosse» di berlusconiana memoria. Ma intanto c’è chi fa notare che quella in atto a Gjader e Shengjin è una «deportazione effettuata con soldi pubblici». E che il miliardo utilizzato per i centri «si poteva usare per l’accoglienza».

L’ira funesta

L’ira funesta di Palazzo Chigi la raccontano il Corriere della Sera e La Stampa. Il sottosegretario Giovanbattista Fazzolari ha consegnato al partito il mandato di attaccare la Corte d’appello per «non aver rispettato la decisione della Cassazione». In virtù della quale competerebbe al governo individuare i «Paesi sicuri». Anche se proprio quella sentenza in realtà dice anche che poi al giudice spetta la decisione finale sul singolo caso. Quello dei magistrati della Corte d’Appello di Roma, che proprio la maggioranza ha deciso di investire con una modifica di legge, è una sorta di «atteggiamento di resistenza». Quasi un sabotaggio. Con l’obiettivo di polarizzare l’opinione pubblica. «Supereremo anche questo ostacolo», si fa sapere dalle parti della maggioranza.

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Deportazione con soldi pubblici

Intanto Chiara Braga, capogruppo Pd alla Camera, in visita ai centri in Albania dice a Repubblica che la sentenza di Roma «è la dimostrazione che il governo ha fallito». Il centro di Gjader, spiega l’onorevole, «è una struttura faraonica, ha l’aspetto di un centro di detenzione controllato dalla polizia in maniera sproporzionata rispetto al numero dei migranti. Davanti agli occhi della nostra delegazione si è palesato questo evidente spreco di risorse pubbliche. Pertanto, a nostro giudizio, si configura il rischio di un danno erariale». Mentre la decisione dei giudici «è il fallimento totale del modo in cui il governo sta gestendo il fenomeno dell’immigrazione, uno spreco di risorse pubbliche che si scontra con il diritto».

Il modello Albania

Braga dice che «sarebbe il caso di rendersi conto che non esiste un modello Albania. È una follia, stanno esponendo questo governo a figure imbarazzanti per il modo in cui stanno gestendo questo fenomeno, mossi solo da un intento di propaganda». E ancora: «Vogliono continuare a far parlare di immigrazione per distogliere l’attenzione dai temi economici e sociali. Ma forse è un problema che non vogliono nemmeno risolvere perché, mentre parlano per giorni del complotto dei giudici, le persone non riescono a curarsi, le bollette aumentano e la produzione industriale è ferma». E infine: «Di certo il governo dovrebbe prendere atto che l’idea di esternalizzare il controllo dei flussi migratori non sta in piedi».

Un’operazione costosissima

Monsignor Perego, presidente della Fondazione Migrantes e della commissione migrazioni della Cei, dice invece a La Stampa che «siamo di fronte a un’operazione costosissima, con un grande dispendio di denaro pubblico, quasi un miliardo, che poteva essere usato per migliorare l’accoglienza e l’integrazione dei richiedenti asilo in Italia. Un tema che ci vede al 16° posto in Europa. E poi c’è la questione non secondaria dei diritti». Secondo il vescovo «lo Stato deve accogliere chi arriva ed esaminare le domande d’asilo sul proprio territorio. La procedura accelerata, invece, per definizione comprime il tempo e i diritti. Nell’ultimo viaggio, inoltre, mancando il personale di Oim per lo screening, ci sono state meno garanzie per minori e vulnerabili. Così l’operazione Albania dimostra l’incapacità di onorare l’articolo 10 della Costituzione, che impegna a tutelare chi fugge da situazioni di guerra e violenza».

I paesi sicuri

Infine, spiega Perego, «anche se in un Paese non ci sono guerre ci possono essere persecuzioni di tipo religioso o politico o altro, che mettono a rischio le persone. L’Italia considera sicuri 19 Paesi, altre nazioni come la Germania ne considerano 9. Questo significa che c’è molta discrezionalità. E lo sappiamo bene, guardiamo l’Egitto e cosa succede lì, a partire dal caso Regeni».



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