Berlusconi e Gheddafi, poi Minniti con le tribù: gli accordi Italia – Libia

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di
Maurizio Caprara

L’obiettivo di frenare le partenze dei migranti

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Tra Italia e Libia l’accordo bilaterale più corposo degli ultimi anni conteneva un patto di non aggressione. Meno di tre anni più tardi fu seguito da bombardamenti mirati, la partecipazione del nostro Paese all’offensiva aerea internazionale dalla quale, nel 2011, derivò la caduta del regime libico dopo che Muhammar el Gheddafi aveva fatto sparare sui suoi cittadini in rivolta. Firmato a Bengasi il 30 agosto 2008 dall’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e dal Colonnello, il «Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione tra la Repubblica Italiana e la Grande Giamahiria Araba Libica Popolare socialista» è tuttora in vigore malgrado il secondo dei due Stati non si chiami più così. E forse non esista proprio, perché un unico, solido Stato non c’è nella Libia smembrata tra la Tripolitania del primo ministro Abdul Hamid Dabaiba, appoggiato dalla Turchia e in buoni rapporti con l’Italia, la Cirenaica nelle mani del generale Khalifa Haftar, sostenuto da Russia ed Egitto, e il suo alleato Aguila Saleh che presiede la Camera dei Rappresentanti di Tobruk.

A colpire l’attenzione, a lungo, fu del Trattato l’articolo 3: «Le parti si impegnano a non ricorrere alla minaccia o all’impiego della forza contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica dell’altra parte». La sostanza però era disseminata anche negli altri 22 articoli, in particolare in quelli dei quali gli interlocutori libici della diplomazia italiana continuano a sollecitare l’attuazione: l’assegnazione dal nostro Paese a imprese italiane di cinque miliardi di dollari nell’arco di 20 anni per realizzare «progetti infrastrutturali» in Libia.




















































Tra la guerra del 2011 e la successiva instabilità a Tripoli i fondi sono stati destinati finora ad altre spese. La costruzione di un’autostrada dal confine libico con la Tunisia a quello con l’Egitto, sottintesa nel documento, non è uscita dal campo delle intenzioni. Ma il Trattato è utile per capire come vanno le cose: certi accordi si possono fare giorno per giorno, non sempre attraverso la diplomazia, e i testi scritti spesso sono una cornice, non priva di valore anche quando sono inattuati.

È nel Trattato del 2008 che si definisce il proposito di «un forte e ampio partenariato», industriale e non solo, sulla difesa. In qualche modo la presenza di militari italiani in Libia, a cominciare dagli addetti a un’infermeria a Misurata, trova una originaria legittimazione anche da lì, in un comma su «scambi di missioni di esperti, istruttori e tecnici».

Attualmente i nostri militari sono un centinaio, il contingente autorizzato è di massimo 200 e a Tripoli inoltre ministero dell’Interno e Guardia di Finanza collaborano con le guardie costiere locali per la vigilanza sul mare. Quanto la formalità degli accordi lasci spazio alla materialità delle prassi lo dimostrano ordinarie stranezze: le squadre di militari italiani che periodicamente si aggiungono al personale stabile per addestrare forze libiche non possono raggiungere la Libia senza il visto sul passaporto di ciascun componente. A volte si intuisce che gli apparati libici pretenderebbero in cambio visti «Schengen».

Manca l’accordo sulla condizione giuridica dei militari italiani, un «Sofa», Status of forces agreement. È in cantiere. Da tempo. Il quadro normativo sul personale in divisa si basa su un’intesa raggiunta nel 2020 con la controparte locale dal ministro della Difesa in carica Lorenzo Guerini e con scambi di note verbali, sotto l’ombrello di un più generale accordo del 2017 tra l’allora presidente del Consiglio Paolo Gentiloni e l’allora primo ministro libico riconosciuto dall’Onu Fayez al Sarraj, relativo tra l’altro al controllo delle frontiere e poi recepito in sede europea.

Ecco perché a contare sono patti di sostanza. Sulla scia dell’accordo di Gentiloni, da ministro dell’Interno Marco Minniti convocò a Roma i rappresentanti di tre tribù libiche in guerra nel Sud. Dal Sahel arrivavano in Libia migranti diretti in Europa. Per ridurre gli sbarchi, nel 2017 Minniti riteneva di dover evitare che le fazioni in guerra si finanziassero con il traffico di poveracci da esportare tramite i barconi. In cambio, alle tribù occorreva dare vantaggi.

Con una settantina di ore di trattative tra i convenuti, non precisamente damerini, il ministro dell’Interno fece sì che l’Italia garantisse una pace tra loro, i quali si impegnarono a frenare gli arrivi di migranti dal Sud. Dall’Italia le tribù ricevettero aiuti medici, pompe per acqua e altro.

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23 gennaio 2025 ( modifica il 23 gennaio 2025 | 23:14)

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