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Mentre la Corea del Sud affrontava una delle più delicate e paradossali fasi politiche della sua storia, dopo il quasi-golpe mancato del Presidente Yoon Suk-yeol, è uscita sotto il marchio Netflix la seconda stagione di Squid Game.
La coincidenza mette un po’ i brividi, perché questo seguito, come e più del primo atto (straordinario successo di pubblico mondiale entrato rapidamente nell’immaginario collettivo), ci parla della crisi di una società. E non ci riferiamo solo a quella sudcoreana, ma all’intero assetto capitalista globalizzato, con le sue promesse di fine della Storia e liberal-democratizzazione universale, smentite e crollate sotto i colpi di devastanti conflitti armati, autoritarismi 2.0 e, soprattutto, diseguaglianze socioeconomiche sempre meno sostenibili.
Di questo ci parla la serie creata, scritta e diretta da Hwang Dong-hyuk, e nei 7 nuovi episodi approdati in chiusura del 2024 (aspettando quelli conclusivi entro il 2025) la sua allegoria politica si fa ancora più complessa e pregnante che nei precedenti. Ciò al netto delle diverse reazioni critiche piovute su Squid Game 2 (si è addirittura parlato di un crollo delle azioni per la società produttrice Artist United, a seguito delle recensioni negative): a conferma, forse, che è impossibile realizzare il sequel di un instant cult così emblematico del presente (pensiamo a Joker) senza, nel migliore dei casi, dividere. Ma in questo caso l’obiettivo più importante è stato centrato: ampliare e approfondire un universo narrativo senza tradirlo, rendendolo ancora di più uno specchio, coerente ancorché deformante, del nostro tempo.
Sabotare o confermare
Alcuni hanno bollato la seconda stagione di Squid Game come troppo ricalcata sul modello della prima: ma, a ben vedere, non è affatto così. Anzi, le nuove puntate giocano fin da subito a manipolare e contraddire le aspettative di chi sa già, o crede di sapere, cosa attendersi. E così, prima di tornare al centro dei giochi mortali, per ben due episodi (su sette: quasi un’eternità) assistiamo all’epilogo della fin qui infruttuosa e frustrante caccia di Gi-hun (Lee Jung-jae, a cui la serie ha già fruttato un Premio Emmy) e del poliziotto Jun-ho (Wi Ha-joon) agli organizzatori delle gare e alla misteriosa isola dove si svolgono.
La prima svolta avviene con l’avvistamento di una figura familiare quanto enigmatica, il Reclutatore (Gong Yoo), tornato in cerca di potenziali giocatori fra gli indigenti e indebitati della metropoli di Seoul, disposti a rischiare la morte pur di ottenere il lauto montepremi finale di oltre 45 miliardi di won. Apparentemente, dunque, siamo riapprodati al punto di partenza, invece è cambiato tutto: almeno per Jun-ho e, soprattutto, Gi-hun, che hanno vissuto sulla propria pelle la violenza, non solo sui corpi ma forse ancor più sulle coscienze, delle micidiali competizioni e delle loro regole.
Regole che altro non sono che la caricatura della società, dove dietro l’orgia di colori patinati, le forme rassicuranti e la regressione infantilizzante di un’enorme ludoteca per adulti, molti svantaggiati sono spinti ad andare l’uno contro l’altro a beneficio dell’élite privilegiata (ne fanno parte gli anonimi VIP spettatori degli Squid Game), con la promessa-ricatto di una ricompensa riservata ai pochissimi o all’unico in grado di sopravvivere. Ora la posta, per un Gi-hun ancora più maturo e sfaccettato, non è più salvare la vita né ottenere il denaro ma «fermare il gioco». Lo stesso che, per contrasto, gli ha fornito, in quanto vincitore, i mezzi per portare avanti la sua lotta.
È possibile allora sabotare il sistema pur facendone parte? Questa è la grande domanda attorno a cui ruotano la stagione e la sua continua dialettica di richiami e variazioni con la precedente. Le due puntate iniziali di Squid Game 2 in tal senso non sono una semplice introduzione, perché servono a mostrarci l’impossibilità di aggredire il gioco e i suoi meccanismi da fuori. Anzi, nella loro lunga ed estenuante ricerca, Gi-hun e i suoi alleati (a tratti volutamente comici nella goffaggine dei loro tentativi) si rivelano a tutti gli effetti prigionieri dell’ennesimo divertimento da bambini trasformato in partita letale tra maggiorenni: quasi un “nascondino” (o una “caccia al tesoro”, nel caso delle indagini di Jun-ho a bordo del peschereccio) che emblematicamente si ribalta nell’agghiacciante roulette russa a cui il Reclutatore sottopone i due inseguitori catturati.
Ma una volta che Gi-hun sceglie il “piano B”, tornare all’isola da concorrente, nel tentativo di arrivare ai piani alti che regolano la macchina (di morte), o quantomeno di rovinare la festa dei potenti salvando più vite possibile e convincendo i giocatori-vittime ad abbandonare la gara, il suo ruolo si fa tanto più ambiguo. E il dubbio che la sua stessa ribellione “dall’interno” non sia solo vana ma funzionale alla partita (come il capitalismo, nei decenni, ha saputo perpetuarsi assimilando e normalizzando le contestazioni anche più radicali a se stesso) percorre in modo angosciante l’intera vicenda.
Il cerchio e la croce
Squid Game 2 finge dunque di assecondare, per poi spiazzare, le nostre aspettative di spettatori della precedente stagione, proprio come sembrano fare gli organizzatori del gioco con Gi-hun: quando ci viene riproposto l’iconico e terrificante “Un, due, stella” come prima gara, con tanto di bambola gigante capace di rilevare i movimenti dei malcapitati, crediamo come lui di sapere quali competizioni ci attenderanno in seguito. Salvo poi venire smentiti con prove inedite, ancora più articolate, sadiche e beffarde di quelle che ricordavamo.
Ma, ennesima variazione destabilizzante sul copione del prototipo, il vero centro delle nuove puntate non sono tanto le gare (che peraltro mantengono rilevanza), quanto gli interludi tra l’una e l’altra. In questi momenti il sistema estrae dal mazzo una delle sue carte più insidiose, facendosi tanto più allegoria delle nostre democrazie capitaliste al punto di non ritorno.
Adesso, infatti, i giocatori non votano più una sola volta alla fine della prima competizione, ma al termine di ciascuna, scegliendo se proseguire con le altre fino alla vittoria dei superstiti (facendo progressivamente aumentare il bottino e diminuire quelli con cui spartirlo) o smettere, tornando alle proprie esistenze con i soldi sin lì accumulati. Un punto in più o in meno per l’una o l’altra opzione determinerà a ogni consultazione il destino di tutti.
Questo espediente, con i personaggi vecchi e nuovi chiamati ripetutamente non solo a pronunciarsi ma a sfidarsi in vere e proprie campagne elettorali, comizi e partiti contrapposti, dove un cerchio è il simbolo di chi sceglie di continuare e la croce di chi vuole fermarsi (e si può sempre cambiare schieramento tra una votazione e l’altra), è forse la trovata più brillante delle sette puntate. Da un lato, infatti, accresce la tensione e le interazioni drammatiche, ritagliando un vero e proprio “gioco nel gioco” – addirittura triplice, se consideriamo quello di Gi-hun & Co. contro l’ingranaggio del gioco stesso.
Dall’altro lato, il rito del referendum, sempre più al limite dell’implosione, permette a Squid Game di scavare ancora più profondamente nelle criticità irrisolte dei veri sistemi politici che ci governano. Come e più che nella scorsa stagione, la libertà di scelta concessa ai presenti, pur ribadita come centrale dal personale mascherato del gioco, si rivela illusoria e ingannevole perché vincolata alle condizioni imposte dalla classe dominante. L’autodeterminazione attraverso il voto è quindi viziata in partenza sia dall’ombra dei fardelli a cui si tornerebbe abbandonando la partita, sia dalla tentazione di aumentare il proprio guadagno oltre il bisogno iniziale, ritagliandosi idealmente un posto al tavolo dei padroni.
Il tentativo “riformista” di Gi-hun di portare gli altri concorrenti a votare croce si scontra quindi con la sua difficoltà a contrapporre un’alternativa, fondata sulla solidarietà, al regime (totalitario) della concorrenza sfrenata. La democrazia degli Squid Game appare così svuotata di senso, come rischia di diventare la nostra, sempre più ostaggio di derive neofasciste, plutocratiche e belliciste che, cavalcando il malessere sociale, restaurano una mai del tutto dismessa legge della giungla.
Squid Game: la rivoluzione non è che un’altra gara?
Proprio quando crediamo di essere condannati a ripercorrere lo stillicidio di cadaveri all’ultimo round narratoci nel primo Squid Game, la seconda stagione ci sorprende nuovamente con un’altra svolta, nell’ultimo, epico episodio. Mentre sta per riprodursi una delle più macabre consuetudini della competizione nell’isola-fortezza, ossia il tentativo di alcuni concorrenti di ucciderne altri nel sonno sperando di aumentare le proprie possibilità di vittoria e l’ammontare della ricompensa, Gi-hun spariglia le carte coinvolgendo i giocatori in un’insurrezione armata, ribaltando il conflitto tra oppressi in conflitto contro gli oppressori. Ma anche questo proposito appare votato allo scacco.
Non per nulla, uno tra i più significativi rimandi alla prima serie è la presenza di un vertice degli Squid Game infiltrato tra i partecipanti alle gare. Dopo l’anziano Oh Il-Nam (Oh Yeong-su), creatore del gioco, stavolta c’è addirittura il Front Man Hwang In-ho (Lee Byung-hun), il cui ruolo si rivela, dall’inizio alla fine, decisivo. La differenza è che stavolta noi spettatori sappiamo la verità, presagendo tanto più l’inesorabile fallimento dei propositi di Gi-hun, ma cogliendo anche sfumature inedite. Abbiamo infatti più volte il dubbio che In-ho, mentre si finge alleato del protagonista, entri a tal punto nella parte da offrire all’altro una pur minima possibilità di avere successo e di smascherarlo.
Del resto, la tragica e sospesa conclusione della stagione conferma la forza del sistema di cui In-ho fa parte, e che riesce a gestire persino la rivolta all’interno delle proprie logiche, come si fosse trattato dell’ennesima, cruenta partita. Gi-hun perde, impossibilitato a sfruttare le divisioni e fragilità interne allo schieramento avversario (che pur esistono, come la parabola del Reclutatore ci suggerisce). Ma, forse, lo scacco per lui sta a monte, nel rifiutarsi di ammettere l’amara realtà: gli Squid Game sono solo un sintomo, la malattia (e il vero gioco) sono le dinamiche sociali e politiche all’esterno.
Glielo ricorda lo stesso In-ho, ancora in veste di Front Man, nella conversazione del secondo episodio: «Quelle persone sono comunque i perdenti del gioco, rifiuti eliminati dalla competizione. Mentre parliamo, tonnellate di rifiuti si riversano in questo mondo. Ancora non capisci? Finché il mondo non cambierà, il gioco non si fermerà».
Il fatto che Gi-hun riesca, comunque, a portare molti dalla sua parte rovesciando, almeno concettualmente, i rapporti di forza iniziali, conferma Squid Game come meno pessimista di quanto sembri. Come infatti i vari personaggi ci mostrano, nel microcosmo spietato in cui sono chiusi, la loro personalità e umanità (persino tra i carnefici, come la cecchina interpretata da Park Gyu-young) contrapposta al sistema che la nega, così la serie rilancia, nel momento in cui la “guerra tra poveri” assume le sue forme più grottesche e spaventose (dentro e fuori la finzione), la necessità di (ri)conoscerci, associarci e lottare insieme per cambiare lo stato delle cose. Quale sarà l’esito della lotta, per loro e per noi, non ci resta che scoprirlo.
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