L’industria europea si sta sgonfiando. Cosa può succedere ora?

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L’Unione europea e l’euro sono stati un buon affare? La domanda è lecita all’indomani delle elezioni tedesche e alla luce dei dati che testimoniano una caduta verticale della capacità produttiva dell’eurozona. Nel 2024 è scesa del 2 per cento rispetto al 2023. Negli ultimi cinque anni – dal 2019 a oggi – la Germania ha perso il 9,3 per cento, la Francia il 5 e l’Italia il 3,5 per cento. Stando al nostro Paese e alla stagione delle privatizzazioni nel 1992-94 che è crollata la produzione industriale e con l’avvio dell’euro l’economia italiana si è praticamente fermata. Notava in uno studio di un paio di anni fa Tommaso Monacelli dell’Università Bocconi che «in termini cumulati, a partire dal 1990 fino al 2022, l’economia italiana è cresciuta, su base pro capite, di soli 19 punti percentuali, mentre la media della zona euro è cresciuta di 46 punti percentuali».

Tutto questo mentre si sviluppano – con crescita a doppia cifra – i Paesi del Nord ed ex sovietici che non hanno l’euro (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca), aumentano le performance economiche di Belgio e Danimarca, in forza di un minor costo dell’energia, e anche della Grecia dove salari molto al di sotto della media continentale nel manifatturiero hanno favorito una delocalizzazione produttiva sulle rive del Dodecaneso. Significativo un rapporto della Bundesbank che è ripreso dall’ormai famoso di «dossier Draghi» dei mesi scorsi in cui si esplicitano due dati che diventano emblematici alla luce degli strappi imposti da Donald Trump all’assetto mondiale: «Se l’Ue dovesse mantenere il suo tasso medio di crescita della produttività dal 2015, sarebbe sufficiente solo per tenere il Pil costante fino al 2050»; e ancora: «Si è aperto un ampio divario nel Pil tra l’Ue e gli Stati Uniti, guidato principalmente da un rallentamento più pronunciato della crescita della produttività in Europa. Le famiglie europee hanno pagato il prezzo della perdita del tenore di vita. Su base pro capite, il reddito disponibile reale è cresciuto quasi il doppio negli Stati Uniti rispetto all’Ue dal 2000».

I recentissimi risultati delle elezioni tedesche sono la rappresentazione plastica di questa «perdita» e disegnano sulla mappa del consenso elettorale l’esistenza di una doppia Germania. È tornata, per usare una battuta del comico Uwe Steimle, la Ostalgie e cioè la nostalgia della Germania comunista dove si stava dignitosamente peggio, mentre oggi nei Lander orientali si sta precariamente meglio e lì trionfa la destra di Alternative für Deutschland.

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Ai tempi dell’unificazione il cancelliere tedesco Helmut Kohl dichiarò: «Siamo qui per costruire una Germania europea e non un’Europa germanica». Il gigante centroeuropeo però ha imposto le sue regole di bilancio, ha sfruttato al massimo le sue esportazioni soprattutto verso la Cina, ha ridotto i suoi costi grazie al gas russo, ha contenuto la domanda interna e gli investimenti. Ha usato le industrie degli altri Stati come subfornitori e segnatamente quella italiana, che è pur sempre la seconda manifattura del Vecchio continente.

La prova? Non sta in fabbrica, ma al supermercato: con Schwarz (comprende anche Lidl), Edeka, Aldi e Rewe controlla il 15,2 per cento del mercato europeo della distribuzione. Quattro soggetti mettono assieme poco meno di 440 miliardi di euro di fatturato, un quarto dell’intero Pil italiano. E comprano a basso costo per rivendere a prezzo più caro. Ma ora la Bundesbank stima che anche quest’anno la Germania sarà in recessione – ulteriore contrazione del Pil di 0,2 punti – e la crisi tedesca, drammatico il tonfo dell’auto, evidenzia il fallimento del modello dell’Unione. Aggravato dai vincoli normativi che via via l’Europa ha prodotto – il tempo medio per una deliberazione è di 19 mesi (si veda il servizio sulla burocrazia nell’Unione a pag. 16) – e soprattutto dalle ideologie del Green deal. Fatto il danno ora la presidente della Commissione Ursula von der Leyen pensa di rivedere lo stop ai motori endotermici, la carbon tax.

Intanto le start-up innovative emigrano: tra il 2008 e il 2021, quasi il 30 per cento dei cosiddetti «unicorni» europei si sono trasferiti negli Stati Uniti. Il presidente americano Joe Biden, dunque, non il «nemico» Donald Trump, con il Reduction Inflation Act ha stanziato un piano che vale con i moltiplicatori duemila miliardi di dollari per le imprese, promuovendo decarbonizzazione e innovazione. Un’attrazione irresistibile. Il Wall Street Journal scrive che le case automobilistiche tedesche nel 2023 hanno investito 15,9 miliardi di euro in America, atteso che la produzione di veicoli fino a 15 anni fa era appannaggio di Europa e Usa (75 per cento del mercato) e oggi è per il 60 per cento in Asia. John Elkann ha deciso di investire cinque miliardi negli States e nulla in Italia, a fronte di un crollo di oltre 70 punti del fatturato di Stellantis. Con quasi 290 miliardi di dollari nel 2023, l’America è stato il primo mercato d’investimento estero. Perché? Una risposta indiretta viene da Alessandro Riello a capo di Aermec (quasi mezzo miliardo di fatturato nel settore della climatizzazione) che dice: «Basta Europa con il Green deal e una burocrazia soffocante, andiamo a produrre negli Stati Uniti. Abbiamo già un investimento da 25 milioni, poi vedremo».

Da 30 anni l’Italia perde industrie. Il professor Vincenzo Comito, docente di economia aziendale alla Sapienza e a Urbino, ha messo in evidenza che «nel 2023 l’Europa ha registrato soltanto il 6,7 per cento degli investimenti industriali mondiali, contro il 54,5 dell’Asia e il 28,5 degli Stati Uniti». Inevitabile, visto che nella Ue del Duemila l’allora presidente della Commissione Romano Prodi aprì le porte alla Cina che l’anno successivo fu ammessa senza condizioni nella World trade organization, l’Organizzazione mondiale del commercio, grazie al presidente americano Bill Clinton. L’Europa si è illusa che la Cina restasse la fabbrica del mondo da cui attingere a costi bassi. I più grandi scali europei, da Amburgo a Rotterdam, sono diventati la porta d’ingresso della concorrenza del Dragone. Il risultato è che – il dato è del Financial Times – il Vecchio continente è passato dal 20 per cento del Pil mondiale nel 1993 al 13,3 per cento di oggi. La stessa traiettoria ha avuto l’Italia.

Nella stagione delle privatizzazioni volute dal ministro Beniamino Andreatta – e messe in pratica da Mario Draghi al Tesoro e da Romano Prodi all’Iri e Palazzo Chigi – a fronte di un corrispettivo di 153 miliardi di euro incassati (di cui 97 nel periodo 1994-2010) abbiamo perso alcuni colossi industriali e tantiprimati: la Montedison nella chimica, la Sme nell’agroalimentare, l’Ilva nella siderurgia, la Stet e Telecom nelle comunicazioni e ancora le Autostrade, Finmare, l’Alfa Romeo, le banche colonizzate dai francesi. Ci sono però rimasti alcuni «debiti». Due esempi: non è ancora chiuso il capitolo ex Ilva di Taranto (è costata al contribuente oltre un miliardo e mezzo da quando la famiglia Riva è stata estromessa), l’Alitalia è stata ceduta a Lufthansa per 325 milioni ma i contribuenti ci hanno rimesso 13,4 miliardi. Le privatizzazioni sono servite a un unico scopo: agganciare l’euro, ma hanno destrutturato interi comparti industriali. Già alcuni anni fa, lo studioso dell’università Bocconi Francesco Daveri sottolineava: «Dopo l’entrata del nostro Paese nell’euro e della Cina nel Wto, la crisi successiva al fallimento di Lehman Brothers (2008) e dopo la recente mini-recessione o stagnazione del 2018-2019, l’industria italiana è in declino, forse irreversibile». Da questo studio si ricava che: «Fatto 100 il livello della produzione industriale nel 1991, l’indice della produzione industriale italiana salì fino a 116,3 nel 2000. Oggi mancano 5 punti rispetto ai livelli di produzione del 1991 per l’industria nel suo complesso».

Ci sono ancora alcuni «colossi» come Fincantieri, Leonardo, StMicroelectronics, la stessa Stellantis anche se in severa contrazione, ma i big sono banche, multiutility e imprese dell’energia, con Enel ed Eni che hanno una forte componente industriale. L’industria nel suo complesso pesa ormai per il 18,1 per cento sul Pil (ha perso due punti dal post-Covid) e interi comparti dal tessile agli elettrodomestici, dalla carta alla metallurgia, sono in forte contrazione. L’indagine di Confindustria per il 2024 mostra che «solo il settore dell’energia ha una crescita (+5,5 per cento), mentre sono in caduta i beni strumentali (-10,7), quelli intermedi (-9,5) e quelli di consumo (-7,3)». Confcommercio, dal canto suo, racconta che «nella fabbricazione di mezzi di trasporto (-23,6 per cento), nelle industrie tessili, abbigliamento, pelli e accessori (-18,3) e nella metallurgia e fabbricazione di prodotti in metallo (-14,6)» la crisi è stata pesante. Al ministero del Made in Italy, Adolfo Urso affronta 42 tavoli di crisi per oltre centomila lavoratori.

Nonostante questo, in Italia si ha il record di occupati: oltre 24 milioni con un tasso di disoccupazione sceso al 6,8 per cento. Com’è possibile? L’industria spera che molto cambi a Bruxelles con la liquidazione del Green deal; il taglio dei tassi che la Banca centrale europea dovrebbe proseguire e offrire un’opportunità; una stabilizzazione dei mercati possa favorire l’export se Ucraina e Medio Oriente vengono finalmente pacificati. A gennaio sono migliorate le aspettative, perciò le imprese confermano i 400 mila posti di lavoro creati negli ultimi due anni.

E poi c’è la grande risorsa dell’agroalimentare – il fatturato sfiora i 200 miliardi di euro con oltre 6.500 aziende e dell’export: è cresciuto del 3,7 per cento facendo dell’Italia il quarto Paese al mondo . Dice Matteo Zoppas, presidente dell’Agenzia di promozione delle imprese italiane all’estero, a Il Sole 24 ore: «L’Italia è forte e l’obiettivo auspicato dal ministro degli Esteri Antonio Tajani di arrivare a 700 miliardi di fatturato estero entro il 2027 è raggiungibile». I problemi principali vanno risolti a Bruxelles. Il neo commissario Ue all’Industria, il francese Stéphane Séjourné, deve rispondere alle obiezioni del dossier Draghi e darsi da fare. Scrive l’ex presidente della Bce: «Non c’è alcuna azienda della Ue con una capitalizzazione superiore a 100 miliardi di euro che sia stata creata da zero negli ultimi cinquant’anni, tutte le sei aziende statunitensi con una valutazione superiore a mille miliardi di euro sono state create in questo periodo. Le aziende europee hanno investito in innovazione 270 miliardi meno delle statunitensi». Quanto alla «rivoluzione verde» Draghi aggiunge: «C’è il rischio che la decarbonizzazione sia contraria alla competitività e alla crescita. Le aziende dell’Ue devono affrontare prezzi dell’elettricità che sono due-tre volte quelli degli Usa, i prezzi del gas sono quattro-cinque volte superiori». Dunque, tirando le somme: l’Europa e l’euro sono stati un buon affare? n © riproduzione riservata

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