Veneto nell’industria bellica, cadono i veti sull’economia delle armi: «Bisogna essere pragmatici»

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di
Silvia Madiotto

L’Europa parla di difesa comune. Zaia, FdI, imprenditori: apertura a investimenti e riconversione. Il no della Cgil: preoccupante

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Quello della Faber di Castelfranco è un caso di misura ancora locale, ma apre una discussione nel mondo produttivo e in quello politico: ripristinare o meno l’«economia di guerra» anche qui, in Veneto? La fabbrica trevigiana, che ha raccolto l’eredità della ex Simmel, per contrastare la crisi ha iniziato a produrre bossoli e ogive: le linee che prevedevano lavorazioni di ambito bellico, attive fino agli anni Novanta, in tempi recenti sono tornate parzialmente in funzione. In un futuro anche un’altra azienda che vive un momento critico, come la Berco – sempre nella Castellana – potrebbe sfruttare quelle macchine già presenti e riconvertirsi, così almeno auspicano le parti sindacali per tutelare i lavoratori.

Zaia: «Anche questa è economia»

Ma quindi il Veneto,in cui diversi settori come l’automotive affrontano un periodo di difficoltà (a causa, anche, dei fronti bellici) può essere protagonista di un’economia riconvertita? L’Europa oggi ricomincia a parlare di difesa comune e investimenti condivisi fra i Paesi membri. E anche un politico anti-guerra come Luca Zaia (del quale è nota la posizione da tempo, a partire dal fatto che è un obiettore di coscienza), non mette paletti rigidi: «Se parliamo semplicemente di business e non dell’aspetto etico, sappiamo che l’industria bellica nella storia ha sempre avuto una produzione – dice il presidente della Regione – e, al di là del contenuto, può essere elemento di produzione. Tutti vorremmo vedere i fiori nelle bocche dei cannoni ma anche questa è economia». Insomma, non sarebbe nelle sue corde, però non dà parere contrario.




















































Speranzon (FdI): «Non ci sono alternative»

Toni più nettamente favorevoli arrivano da un esponente di spicco di Fratelli d’Italia, Raffaele Speranzon: «La riconversione è una strada a cui non ci sono alternative: l’America legittimamente non è più disposta a spendere un centesimo per difendere l’Europa. E quindi, o l’Europa si attrezza e diventa autosufficiente, oppure saremo in balìa di chi, con un esercito più forte, viene a casa nostra. Questo, però, ci permetterà, nella misura in cui riusciremo a garantirci da soli la sicurezza, di essere più forti dal punto di vista politico, diplomatico ed economico. L’investimento sulle armi non è su ciò che va a offendere ma su ciò che va a difendere».

La direzione del mercato

Fra le associazioni di categoria, si parte sempre dal concetto che la scelta è e rimane della singola impresa. Dice il presidente di Unioncamere Antonio Santocono: «Se, per fortuna, non è scoppiata una guerra mondiale, l’economia di guerra è invece molto vicina ed è normale che qualcuno si interroghi per rispondere a bisogni che, prima, non c’erano. Preoccupa che ci si debba occupare del settore militare, ma se devo ragionare da imprenditore, si va dove il mercato chiede di essere presenti. Quando non ci sono prospettive, o quando si parla di dazi, accade anche ciò che non si poteva pianificare». E il presidente della Camera di Commercio di Treviso, la provincia di Faber e Berco, Mario Pozza: «Il tema è delicato e oggi dovremmo parlare più di pace che di armi. Ma a volte bisogna fare di necessità virtù. Usa ed Europa chiedono che il bilancio bellico dei Paesi aumenti, e un’azienda che si riconverte si inserisce in un mercato esistente. È una scelta che va ponderata, bisogna capire come entrare nel mercato, se ci sono già le attrezzature, se si possono mantenere livelli di occupazione. E il nostro aerospaziale sta già lavorando su strumenti di difesa».

Paglini (Cisl): pragmatismo

Per il segretario regionale della Cisl Massimiliano Paglini «dobbiamo essere pragmatici, l’Italia e il Veneto non possono rimanere indietro. È evidente che a livello europeo c’è un cambio di prospettiva sugli investimenti per la difesa comune, è una partita in crescita. L’Italia ha già industrie belliche e penso che su questo serva una riflessione attenta, una programmazione condivisa fra politica e tessuto produttivo». Nessuno strumento offensivo, solo difensivo, premette Paglini: «Ma se ci sarà necessità di difendere l’industria pesante e meccanica del Veneto dobbiamo guardare a tutti i settori di sviluppo, compreso un eventuale sistema di produzione di difesa. Già oggi produciamo tecnologia di questo tipo. Se significa pensare all’occupazione, siamo pronti al dialogo».

Basso (Cgil): idea da brividi, non risolve i problemi

Nettamente contraria è Tiziana Basso, segretaria della Cgil: «Sono molto preoccupata. Il tema della riconversione bellica non è una soluzione. Posso comprendere il problema del singolo lavoratore, che teme per il proprio impiego, ma è un percorso sbagliato. Non dà una vera prospettiva alla manifattura che invece ha bisogno di riconversioni vere, energetica, digitale ed ecologica». Il punto, rileva Basso, è sostenere la vocazione manifatturiera del Veneto, non quella bellica: «Siamo contrari alla linea del governo di alimentare la guerra. Il Veneto deve produrre prodotti di qualità dal contenuto tecnologico e sostenibile, come chiede il mercato. L’idea che si passi dalle auto ai carrarmati mi fa venire i brividi. Non si salvano così le aziende: servono investimenti, scelte strutturali, un intervento pubblico. Oggi in Veneto non c’è una discussione su cosa e come produrre, si preferisce mettere toppe».


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