ISRAELE, guerra e politica. Ben presto la strategia di Netanyahu potrebbe mettere alla prova la pazienza di Trump

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a cura di Ely Karmon, senior research presso l’International Institute for Counter-Terrorism (ICT), oltreché docente presso la Reichman University di Herzliya; pubblicato il 4 marzo 2025 da “Times of Israel”, https://blogs.timesofisrael.com/netanyahus-strategy-could-soon-test-trumps-patience/ Il governo di Benjamin Netanyahu sta perseguendo una politica irresponsabile che potrebbe portare a un deterioramento della sua posizione in tutti gli ambiti. In Giudea e Samaria (Cisgiordania, n.d.t.), la campagna militare sta iniziando ad assomigliare molto a una strategia simile a quella che ha informato le operazioni nella striscia di Gaza, con l’aeronautica che bombarda piccoli gruppi o singoli terroristi, i bulldozer D9 che demoliscono le infrastrutture a casaccio e la popolazione che viene espulsa dai campi profughi senza alcuna preparazione per un alloggio o un riparo alternativo nel clima rigido di questi giorni. Di recente, l’esecutivo ha deciso di inviare per la prima volta dopo venti anni i carri armati in Cisgiordania, contrariamente a quanto voluto dall’esercito.

ANNESSIONE STRISCIANTE DELLA CISGIORDANIA

Ai palestinesi dei Territori non è consentito lavorare in Israele, mentre invece non viene affrontato il problema delle migliaia di residenti illegali, che costituiscono una minaccia reale di potenziali terroristi in grado di compiere attacchi. Nel frattempo, però, gli insediamenti dei coloni vengono ampliati nel quadro di una annessione strisciante. Decine di battaglioni di Tsahal (Israel Defense Forces, IDF) sono stati schierati in Giudea e Samaria allo scopo di gestire la situazione, ma per anni il lungo confine con la Giordania è stato trascurato, consentendo così un massiccio contrabbando di armi finanziato dall’Iran. Alla fine dell’Operazione Protective Edge, nel 2014, l’ayatollah Khamenei ordinò alle sue forze di rafforzare e armare i gruppi palestinesi che operavano in Cisgiordania, ma lo Stato ebraico non inviò unità delle forze armate a bloccare il confine col Regno hashemita.

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PRIMA O POI I MIRACOLI FINIRANNO

Questa minaccia negletta che è stata ulteriormente aggravata dalla politica pluriennale del governo tesa a indebolire l’Autorità nazionale palestinese (ANP) e le sue agenzie di sicurezza, impegnate nel contrasto di Hamas e della Jihad Islamica palestinese. Conseguentemente, le attività terroristiche in Cisgiordania e in Israele sono in aumento nonostante i notevoli sforzi dell’esercito, dello Shin Bet e della polizia. Però, a un certo punto esauriremo i miracoli che finora ci hanno consentito di neutralizzare le trappole esplosive dei terroristi, come verificatosi a Holon e Bat Yam. In queste condizioni, il sogno di normalizzare le relazioni dapprima con l’Arabia Saudita e poi con la maggior parte dei Paesi islamici, diverrà sempre più sfuggente. Quindi si ingenera il quesito: Netanyahu sta consapevolmente rinunciando allo strategico gioiello della corona? Cioè la possibilità di instaurare una fase di stabilità e prosperità nella regione mediorientale grazie all’intervento risolutorio del suo amico Donald Trump?

ADESSO PREOCCUPA ANCHE L’EGITTO

L’esteso arsenale del quale dispone l’Egitto e le sue mosse sconcertanti durante la guerra a Gaza sono un elemento di reale preoccupazione. Ma l’intervista con il nuovo ambasciatore dello Stato ebraico a Washington sulla minaccia costituita dal Cairo e le fughe di notizie sulla stampa israeliana sono certamente opera del primo ministro Netanyahu. Dopo Protective Edge gli egiziani mediarono il cessate il fuoco con Hamas, offrendo una soluzione simile a quella che gli Stati del Golfo e la comunità internazionale stanno ora proponendo per la Gaza del dopoguerra: l’assunzione da parte di un’ANP riformata del controllo dei valichi di frontiera con la Striscia di Gaza e, di risulta, il pieno controllo della polizia, dunque della sicurezza, a Gaza e della sicurezza in quel Territorio palestinese. Ma Netanyahu ha respinto la proposta egiziana, che ovviamente anche Hamas ha dal canto suo respinto.

LA «SOLUZIONE» DI BIBI E LE SUE CONSEGUENZE

La soluzione del primo ministro è stata quella di consentire al Qatar di divenire la principale fonte di finanziamento dell’organizzazione terroristica islamista radicale e questo ha permesso ad Hamas di controllare la Striscia di Gaza e indebolire l’ANP. Si tratta del “concetto strategico” che ha condotto Israele alla catastrofe del 7 ottobre 2023. E questo, ritengo, sia anche ciò che ha causato la prima frattura con il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi, che ha rovesciato il governo della Fratellanza Musulmana e imprigionato i militanti di Hamas. Allora (e fino a poco tempo fa) il Qatar, che della Fratellanza Musulmana è sostenitore, era il principale nemico dell’Egitto nel mondo arabo. Pertanto, impegnando risorse al confine delle alture del Golan per fare fronte alla sfida posta da Ankara attraverso il radicamento militare in Siria, Israele ha invece fornito al presidente turco Recep Tayyip Erdoğan l’opportunità di risolvere la crisi politica che era in atto con l’Egitto di al-Sisi, ponendo lo Stato ebraico in una situazione molto pericolosa. Infatti, al-Sisi, inizialmente molto cauto nell’approccio al nuovo leader siriano Ahmed al-Shara’a, in seguito lo ha invitato in visita ufficiale al Cairo.

LA CASA BIANCA SI STA STANCANDO DI NETANYAHU?

Tutto questo accade mentre il lavoro nella Striscia di Gaza non è ancora terminato, con la messa in sicurezza del Libano meridionale da parte delle IDF ancora limitata, dato il rischio di una ripresa dei combattimenti contro Hezbollah. Senza contare gli Houthi, che minacciano di tornare ad attaccare Israele da un momento all’altro e con l’Iran in ansia di migliorare la sua posizione dopo i recenti fallimenti subiti in Siria e in Libano. Con grande disappunto di Netanyahu e dei membri della sua coalizione estremista, riguardo alla spinosa questione del nucleare il presidente americano Trump ha deciso di preferire la via negoziale con l’Iran, annunciando che non appoggerà un’azione militare israeliana contro gli impianti nucleari degli ayatollah. A questo punto, l’unica speranza è che alla Casa Bianca ci si stanchi di Netanyahu, poiché sta contribuendo a porre a repentaglio la sua strategia per il Medio Oriente della nuova amministrazione statunitense. I primi segnali potrebbero venire percepiti dalla decisione di Trump di sostenere il rilascio di tutti gli ostaggi israeliani quale parte della seconda fase dell’accordo per la fine della guerra.

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DINAMICHE PARADOSSALI MA FORSE EFFICACI

Paradossalmente, la crisi tra il presidente americano Donald Trump e quello ucraino Volodymir Zelensky, che ha portato al congelamento dei negoziati per il cessate il fuoco tra Kiev e Mosca, potrebbe reindirizzare l’attenzione di Washington sulla crisi di Gaza, teatro di crisi nel quale la Casa Bianca è in grado di esercitare un’influenza molto forte sia sul primo ministro israeliano che sui mediatori arabi. Oggi, i paesi della Lega Araba sono pronti a presentare la loro proposta per una soluzione alla guerra nella Striscia, qualcosa che non includerebbe l’espulsione della popolazione palestinese. Quindi, qualora riuscisse a porre fine alla saga degli ostaggi giungendo alla pace da lui promessa, Trump otterrebbe un’importante svolta diplomatica nel Medio Oriente. Ma tale sviluppo della situazione faciliterebbe anche una soluzione riguardo al controllo di Gaza senza Hamas, un accordo arabo-israeliano che spianerebbe la strada alla normalizzazione delle relazioni tra l’Arabia Saudita e lo Stato ebraico Israele e alla contestuale estensione degli Accordi di Abramo ad altri paesi arabi e musulmani. A mio avviso, il nuovo piano i cui termini sono stati resi noti da Steve Witkoff, rappresentante del presidente Trump, che prevede il rilascio degli ostaggi in due fasi e l’invito a Washington del sopravvissuto al sequestro Eli Sharabi, indicherebbero la nuova direzione intrapresa dalla Casa Bianca. A quel punto, presumo, la delegazione degli ostaggi guidata da Sharabi solleverà pubblicamente la questione a livello politico negli Stati Uniti d’America e, chissà, magari anche a livello internazionale.



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