Endurance, il futuro visto dal passato.

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Endurance, il futuro visto dal passato. 

Non esiste umana vicenda che, nel corso della storia, non sia stata soggetta al continuo avvicendarsi dei mutamenti
indotti dalle nuove scoperte. Molti di questi hanno certamente prodotto un miglioramento delle condizioni di vita, garantendo il futuro dell’umanità e, in molti casi, anche di altre specie di esseri viventi. D’altra parte, però, alcune scelte hanno causato una deformazione dei bioritmi dell’ecosistema e un negativo
condizionamento dei processi di sviluppo civile e sociale, provocando effetti e risultati diversi da quelli desiderati. E non
si è certamente sempre trattato di meri errori di valutazione o di involontarie conseguenze di una giustificabile ignoranza. Già, in molte circostanze si è agito con sufficiente consapevolezza e persino con cosciente colpevolezza. In tal senso, può dirsi che l’avanguardia si sia perseguita come fine che ha giustificato i mezzi, a favore di interessenze di natura
economica, politica, sociale o anche di sola egoistica affermazione individuale, in molti e svariati ambiti, compreso
quello sportivo. In quest’ultimo assumono maggiore rilevanza le dinamiche che vedono coinvolti gli animali, quali esseri
impiegati nelle attività agonistiche per scelta dell’uomo, che ne detiene la libertà e di essi determina le sorti della vita in
cattività. Ed eccoci giunti alla trattazione del fenomeno del progresso in seno alla nostra amata disciplina equestre
dell’Endurance. Nata, secondo le più autorevoli fonti, dal retaggio delle staffette americane dei pony express e diffusasi a livello mondiale poco prima degli anni ottanta, nel corso degli ultimi vent’anni essa ha subito importanti trasformazioni, che sono anche coincise con la dirompente avanzata del mondo arabo. Tale ingerenza ha prodotto l’instaurarsi di nuovi rapporti economici e introdotto nuove logiche manageriali nelle politiche sportive del settore, apportando sensibili modifiche alle realtà conosciute. Ne è derivato un notevole cambiamento delle consuetudini e delle norme che
caratterizzavano questo tipo di competizioni, sino al raggiungimento di una visibile alterazione del concetto della
resistenza a cavallo, che si è tradotta in una reinterpretazione generale, dalle componenti geografiche e ambientali, a
quelle di tipo tecnico, in ordine alle regole di gara e alle performance dei cavalli. Si è assistito ad una sorta di
incontrollata manomissione, figlia di un inarrestabile rapporto sinallagmatico tra domanda e offerta, a cui ha dovuto far
fronte anche la Federazione Equestre Internazionale, con non poche implicanze di carattere gestionale e diplomatico. Si
è generato un palese paradosso nel faticoso tentativo di mantenere un equilibrio tra gli interessi della imprenditoria
sportiva e la garanzia dei principi di salvaguardia del benessere animale, teoricamente posti alla base dell’idea fondate
della disciplina. La teoria è stata, però, messa in seria discussione, visto il perpetuarsi di continui drammatici incidenti occorsi ad alcuni cavalli impegnati in gare disputate nei deserti delle regioni arabe, le cui notizie, nel corso degli anni, sono saltate alle
cronache, lasciando indignata molta della opinione pubblica da una parte e svelando la connivente omertà delle
partnership coinvolte dall’altra. Va detto che tali accadimenti hanno dato vita a diatribe di notevole connotato a livello mondiale, sino all’adozione di inevitabili (impossibile continuare a glissare) misure disciplinari da parte della Fei verso le
organizzazioni responsabili, che in certi casi si sono risolte con parziali e/o momentanee scissioni dei rapporti
istituzionali tra la federazione internazionale e le dirigenze chiamate in causa. Sulla questione non indugero’ oltre per evitare la divulgazione di notizie inesatte, non essendo le mie informazioni adeguatamente aggiornate. E poi va detto che la critica non può rivolgersi a tutto il mondo arabo, che in molti scenari è,
invece, meritevole di plauso e fonte di grande ispirazione, anche per la antica enfatizzazione del rapporto uomo-cavallo.
In ogni caso, l’analisi che questo scritto vuole suggerire può fare a meno del dato giornalistico sugli assetti delle diverse
governance sportive internazionali, dato che gli eventi a danno dei cavalli atleti si ripetono e continuano a porre una
questione di merito su tale attività equestre. Inoltre, il problema persiste anche in alcune realtà nazionali che guardano
con prospettica convenienza alle prebende provenienti dalla tratte commerciali che da tempo ormai orbitano
grandemente attorno al movimento sportivo in questione. Sebbene le affaristiche connessioni ultimamente abbiano
subito un ridimensionamento, i suoi canali sono rimasti aperti per chi ha avuto l’audacia e, diciamolo, anche la
spudoratezza di rimanere indifferente ai noti accadimenti. Anche nella comunità sportiva italiana si contano molti
interlocutori commerciali attivi tra gli addetti ai lavori della disciplina e essa risulta ancora molto influenzata dal fascinoso miraggio del business equestre. Lo è a tal punto che credo si sia giunti ad un tacito compromesso sistemico, secondo
cui per fare le regole servono i fatti e non il contrario, come in verità dovrebbe essere. Si ha come l’impressione che le
continue revisioni dei regolamenti di gara, proposte come aggiornamento delle misure volte a preservare l’incolumità dei cavalli, siano una sorta di tentativo paradossale di legittimare una deriva agonistica che impone una incontrovertibile

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trasformazione delle competizioni, passate negli anni da avventurose prove di resilienza a vere e proprie lunghe corse
di velocità. Il risultato? Il venir meno della diversità dei contesti ambientali (caratteristica peculiare della naturale
declinazione sportiva di questa disciplina), oltre all’appiattimento dei format organizzativi e la rinuncia alla romantica
narrativa di prove atletiche che cambiavano di volta in volta. E ancora, il rischio di una reputazione immeritata, che
diffonde l’Endurance come sport immorale, senza le distinzioni dovute e con asseverata e condivisa condanna. Una
ingloriosa sentenza mediatica, a cui è difficile opporre una opportuna e vincente difesa, a causa delle testimonianze di cui si è detto. Eppure, il fondo (vero nome italiano) porta con sé contenuti che ne provano la importante cifra tecnica,
l’alto valore etico e la validità della sua sostenibilita’, persino a confronto con molte altre discipline sequestri. Sotto molti
profili l’Endurance rappresenta la maggiore applicazione delle conoscenze scientifiche, etologiche e di tecnica equestre
a favore del cavallo inteso come atleta. Basti pensare alle condizioni di vita, di allevamento e anche di allenamento dei cavalli impiegati in questa attività sportiva, che si svolgono in contesti prossimi alle naturali e ancestrali necessità
dell’animale. E poi, la continua valutazione dello stato fisico e l’attenta interpretazione dei livelli di partecipazione
emotiva, componente questa spesso sottovalutata, ma che nella disciplina del fondo assume una valenza di
fondamentale importanza per l’ottenimento di buone prestazioni. Non è un caso, infatti, che il cavallo da Endurance
goda di maggiore longevità sportiva e che la prosecuzione della vita dopo la carriera agonistica racconti di sorti felici e
diverse da molte altre meno liete. Detto questo, in alcun modo questa apologia della disciplina vuole porsi come
esercizio di confronto, ma i riferimenti paradigmatici sono un utile strumento per giungere ad una corretta lettura e
comprensione delle significazioni addotte. Piuttosto, da queste considerazioni è opportuno trarre delle riflessioni da
condividere nelle giuste sedi, in cui sarebbe auspicabile vedere interagire le diverse parti coinvolte. A tal guisa, uno degli argomenti dalla sempre attuale riproposizione è la disfunzionale diastasi tra le categorie e i comparti che compongono la federazione. La mancanza di un reale collegamento tra la dirigenza e l’utenza
rappresentata dagli allevatori, dai cavalieri e dagli appassionati a vario titolo inclusi, è identificabile come causa di una
disgregazione che non ha consentito la giusta e proporzionata crescita della disciplina, la quale ha gradualmente
perduto il contatto con la sua radice, proveniente da quella fucina produttiva, ma relegata quasi ad un ruolo di contorno
folkloristico, che è l’equitazione di campagna. La mia impressione è che si siano perduti pezzi di cultura lungo il
percorso di questo disarmonico sviluppo e che questi oggi siano la cifra mancante di una condizione deficitaria dei concetti e delle filosofie che devono sorreggere la conduzione virtuosa di una attività agonistica. Si guardi, quindi, alla tradizione come base per il progresso, che deve portare con sé il valore del pluralismo e del
popolarismo, in cui possano identificarsi in maniera indiscriminata tutti coloro che intendono destinare la propria
passione a tale realtà, ripristinando il tenore goliardico e il sentimentale coinvolgimento che, dalle Alpi alle Isole, ha reso
il nostro paese un grande competitor a livello mondiale nella storia di questo sport. Il primo passo sia una riforma dei
dettami costitutivi su cui si impernia la vita federale, dando funzioni attive, espressive e di voto ai cavalieri, riducendo
così la distanza comunicativa e valorizzando le opportunità collaborative tra i vari livelli gestionali. Si prosegua con la
neutralizzazione di ingiusti conflitti di interesse, eliminando inopportuni classismi e caste interne, che inaspriscono le
relazioni e mortificano quello che deve essere il comune intendimento della attività sportiva. Si ritorni a far valere le gare
come opportunità di vivibilità dei nostri territori, sensibilizzando la conoscenza e il rispetto ambientale, come occasioni di reciproco arricchimento umano attraverso la solidarietà e il fairplay e, perché no, come volano per il turismo alternativo, a cui il nostro paese è fortemente votato. Si faccia un intelligente ed efficiente proselitismo sulle giuste dicotomie tra il
professionismo e il dilettantismo, con una riforma regolamentare delle attività, da cui ne derivi la garanzia di una equa
distribuzione territoriale. Si torni a considerare il cavallo un compagno di ventura capace di provare sentimenti e non
solo una fruttuosa merce di scambio, onorandone l’atavico ruolo di protagonista indiscusso della storia del nostro
pianeta. Un ritorno alle origini, dunque, senza arrestare la proiezione delle nuove realtà verso il futuro, ma con la missione di far coesistere in una unica grande esperienza sportiva tutte le emozioni, le idee e le storie di resistenza da
poter vivere e poi raccontare in pagine che non dovremo mai strappare e che potremo leggere e rileggere con orgoglio
ogni volta che vorremo.

di Francesco Coppa



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