Kepler: un teatro documentario che ci interroga sull’idea di società in cui vogliamo vivere

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La compagnia Kepler- 452 ha portato in scena all’Arena del Sole, in prima assoluta, uno spettacolo che documenta la preparazione e le fasi di svolgimento di un’operazione di salvataggio di una nave della ONG Sea-Watch partita da Messina nel luglio scorso fino all’approdo delle 156 persone soccorse in mare in un “place of safety” nel porto di La Spezia loro assegnato. Sul palco con l’attore e co-regista Nicola Borghesi, non ci sono altri attori, bensì i veri testimoni della realtà che lo spettacolo narra, membri di equipaggi di navi di Sea-Watch e di EMERGENCY che interpretano se stessi per porre davanti agli occhi dell’uditorio il fenomeno migratorio nel Mediterraneo centrale che definiscono “un grande rimosso collettivo della civiltà europea”.

Il teatro oggi è di per sé un fatto politico, una resistenza culturale di chi lo fa e anche di chi vi partecipa come pubblico. Fare teatro, anche mettendo in scena Shakespeare, implica oggi, a mio avviso, per la difficoltà estrema dell’essere artisti e di arrivare al pubblico, una visione del mondo, un pensiero da portare sul mondo che vogliamo o sogniamo e sui valori che in esso devono trovare posto. Ancor più vero è questo quando non si parte da un copione già scritto, ma si sceglie di raccontare un pezzo di realtà studiandola, conoscendola profondamente.

Kepler- 452 con “A place of safety” torna a proporre, dopo Il Capitale. Un libro che ancora non abbiamo letto, centrato sulla lotta degli operai del Collettivo di fabbrica GKN, una sorta di documentario teatrale che testimonia da un lato lo sforzo immane delle ONG di salvare vite umane in mare e dall’altro l’inarrestabile desiderio di una vita migliore che alimenta le speranze delle migliaia e migliaia di uomini, donne e minori migranti che mettono piede sulle imbarcazioni precarie che dalle coste africane partono per il miraggio europeo.

Vista dalla nave SEA-Watch l’Europa appare come un grande inganno perché di fatto non è in grado di dare attuazione ai diritti umani, non dà nemmeno seguito all’obbligo di salvataggio in mare delle vite umane che è a fondamento di numerose convenzioni internazionali. L’unica verità dell’Europa, affermano con convinzione dal palco, “sono i suoi confini”. Nel deserto d’acqua che è il Mediterraneo, ci sono persone che devono rischiare la vita per andare a cercare altre persone disperate imbarcate su gusci fragilissimi le cui vite non sono riconosciute come degne da governi che li respingono e ostacolano in ogni modo il loro approdo in un posto sicuro. Se solo pochi anni fa la guardia costiera italiana era un prezioso alleato delle ONG, ci testimoniano i protagonisti, che consegnavano loro i naufraghi soccorsi per l’accompagnamento nel porto più vicino, tornando così rapidamente a cercare altre imbarcazioni in difficoltà e bisognose di aiuto, oggi, per le mutate condizioni politiche che hanno determinato un cambio nelle procedure, la guardia costiera italiana, quando non scarica il barile su altri Paesi, perché territorialmente più vicini all’imbarcazione in avaria, consegna i migranti alla guardia costiera libica e cerca di spingere le stesse ONG a fare altrettanto.

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I racconti di Flavio Catalano, deck team leader, Life Support di EMERCENCY, di Miguel Duarte capo missione, Iuventa e Sea-Watch, di Giorgia Linardi, giurista e portavoce Sea-Watch, di Floriana Pati infermiera EMERGENCY e di José Ricardo Peña elettricista, Sea-Watch insieme alla cornice data da Nicola Borghesi che si è imbarcato per poter costruire lo spettacolo testimoniando tutto quello che su quelle navi accade, aiutano il pubblico a comprendere le procedure di soccorso e le condizioni in cui esse avvengono e a capire come si possa fare festa, cantare e ballare su una nave stipata di gente celebrando l’essere vivi. Festeggiare la vita, da parte dei salvati, dopo aver visto con i propri occhi morire tutti i sommersi, sembra davvero una cosa sensata, perché in quel momento la vita ha vinto e, conoscendo ciò che quelle donne, uomini, bambine e bambini hanno alle spalle, né l’equipaggio né tanto meno noi comodi in platea abbiamo diritto di giudicare o infrangere il momento di gioia, pur sapendo che una volta sbarcati nel porto assegnato, inizierà un’altra fase difficile della loro vita che potrebbe concludersi anche con un ritorno forzato al punto di partenza.

A place of safety è uno spettacolo necessario, necessario a ricordarci cosa stiamo lasciando che accada nel Mediterraneo, necessario a dare voce a chi non sa rassegnarsi alla perdita di tutte quelle vite e a chi dovrebbe vedersi riconosciuto il diritto di muoversi alla ricerca di condizioni di vita dignitose lasciando qualunque paese, compreso il proprio. Le narrazioni non portano alla nostra attenzione storie esemplari di migranti perfetti che debbano suscitare lacrime perché degni di essere salvati per straordinari meriti o terribili violenze subite. Sia chiaro che nelle migliaia di testimonianze raccolte ad esempio dalla portavoce di Sea-Watch Giorgia Linardi nelle numerose missioni a cui ha preso parte, emerge ben chiaro il quadro di violenze che i e le migranti subiscono lungo il percorso. Uno dei punti che la messa in scena vuole chiarire però è che le persone salvate ai naufragi non ci devono piacere singolarmente per le loro sofferenze, i loro meriti personali, devono essere salvati a prescindere da qualunque considerazione sul luogo di origine, sulle torture subite e sui motivi per i quali si sono imbarcate. Dovrebbe essere riconosciuto a ogni migrante il diritto alla vita come diritto umano insieme a tutti i diritti di protezione che il i trattati internazionali prevedono e anche il diritto di festeggiare la vita e il fatto che qualcuno ti possa venire a cercare in mezzo al mare senza chiederti nulla in cambio.

Un posto sicuro, ci spiegano i narratori- testimoni di questa cerimonia laica accolta da tutto il pubblico dell’Arena del Sole in piedi e commosso, è quello in cui possono essere soddisfatti i bisogni umani fondamentali ricevendo cibo, riparo e cure mediche. Le navi delle ONG riescono a trarre in salvo una quantità minima di persone rispetto a tutte quelle che partono e che riescono a chiedere soccorso, oltre una certa capienza non possono essere raccolte e tante imbarcazioni vengono trovate da chi riporta in Libia i migranti consegnandoli alla Guardia Costiera di quel Paese, o non vengono trovate affatto. Le navi delle ONG dovrebbero essere soltanto temporanei luoghi di sicurezza, rimandando ad altri soggetti la conduzione nei porti e in luoghi davvero sicuri che non siano altre prigioni. Questo oggi non avviene e non c’è cooperazione tra i governi per un’accoglienza degna. Lo spettacolo, ideato da Kepler-452 con la regia e drammaturgia di Enrico Baraldi e Nicola Borghesi realizzato in collaborazione con Sea-Watch e EMERGENCY e coprodotto da Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, Teatro Metastasio di Prato, CSS Teatro stabile di innovazione del Friuli Venezia Giulia, Théâtre des 13 vents CDN Montpellier (Francia), vuole essere una riflessione su cosa farne delle tante storie raccolte dagli operatori e operatrici delle navi di soccorso delle ONG, come devono essere raccontate quelle storie di soccorsi e storie dei e delle migranti. Vanno evidenziate le somiglianze, i numeri rispetto a quello o quell’altro dato, vanno scelte le storie esemplari o quelle più utili alla parte politica a cui ci sentiamo di appartenere semplificando la realtà rafforzando ora lo stereotipo del migrante fatta dalla destra o dalla sinistra? Non ci sono risposte date nel racconto documentaristico e teatrale a cui assiste il pubblico, emerge però un invito a considerare la singolarità di ciascuna storia e di ciascuna persona e a ritrovare un senso di umanità che il nostro presente ha smarrito. Alla play list di canzoni per celebrare l’essere vivi Borghesi aggiunge la sua scelta “E ti vengo a cercare” che risuona nel finale come sollecitazione rivolta a tutto l’uditorio e, per interposta persona, all’Unione Europea a rendersi conto di ciò che potrebbe essere e che oggi non è.





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