Chiacchere e pesto non sono una Ferrari. Non richiedono ingegneri, progettisti, fisici, studiosi che producono innovazioni a volte estreme, no. Al contrario, l’idea è sempre quella di ostentare una sempre maggiore tradizione, compreso il mortaio in pietra e il legno. Forse che il super chef, o pasticcere che sia, assimila il suo lavoro e il prodotto che ne deriva a quello dell’haute couture? È egli stesso a tutti gli effetti un brand? Viene da pensare davvero all’idea, non tanto del cibo in sé, ma del dove lo compri eretto a status symbol. In tutto questo non c’è traccia di civiltà dei consumi ma semplicemente del suo golem, ormai fuori controllo
◆ Il commento di PAOLO INGLESE
► Il grande pasticcere pluripremiato ha proposto, a Milano, le chiacchere, il più tradizionale e popolare dolce di Carnevale, a 100 euro al chilo. Non bastasse, è arrivato dalla Liguria il pesto a 1000 euro al kg! Non è uno scherzo di Carnevale, ma qualcosa su cui riflettere, davvero. Lo abbiamo scritto e detto mille volte, se è vero che il cibo è − onore a Levi Strauss − storia, cultura, segno, convivio, tutto quello che volete, allora occorrerebbe chiedersi che tipo di cultura sia quella che trasforma anche il cibo più umile in un oggetto di lusso. Ho più domande che risposte.
Mi chiedo se sia davvero questa la strada per la valorizzazione del Made in Italy. Credo di no. Non credo che questa sia l’eccellenza cui ambire. Chiacchere e pesto non sono una Ferrari. Non richiedono ingegneri, progettisti, fisici, studiosi che producono innovazioni a volte estreme, no. Al contrario, l’idea è sempre quella di ostentare una sempre maggiore tradizione, compreso il mortaio in pietra e il legno. Forse che il super chef, o pasticcere che sia, assimila il suo lavoro e il prodotto che ne deriva a quello dell’haute couture? È egli stesso a tutti gli effetti un brand? Certo, ci sono casi in cui la complessità delle scelte gastronomiche, il valore intrinseco degli ingredienti, la storia del luogo, le capacità di chi cucina, siano tali da giustificare prezzi altissimi. Ma le chiacchere, il pesto?
Ci si chiede, legittimamente se questa trasformazione del cibo in un prodotto di lusso, o luxury che fa ancora più figo, non ne snaturi essenza e significato, fino a perderlo del tutto. Le motivazioni addotte sono sempre le stesse, trite e ritrite: tradizione, manualità, artigianalità, produzioni locali solo per questo eccellenti e, naturalmente l’immancabile nonna (ma quanti anni ha?) e “l’esperienza da vivere” ovviamente esclusiva (?) sono gli, abusati, ingredienti immateriali che, molto più di quelli materici, definiscono il valore e quindi il prezzo dell’alimento. Personalmente, non ne posso più di questa ridicola trasformazione dei prodotti popolari in icone del lusso.
Ma ha ancora senso ricordare di cosa sono fatte le chiacchere? Gli ingredienti sono farina 00, burro, uova, sale, zucchero, lievito in polvere e il baccello di vaniglia, ai quali possiamo aggiungere l’olio di semi per friggere; la ricetta è la stessa per tutti. Quale è la forbice di valore tra il costo, tutto incluso, di produzione e il prezzo di vendita, nel caso in questione? Forse anche di uno a venti, certamente non meno di 1:15. Viene da pensare davvero all’idea, non tanto del cibo in sé, ma del dove lo compri eretto a status symbol. È un altro segnale di una civiltà dei consumi che ormai si stenta a definire tale, perché davvero in tutto questo non c’è traccia di civiltà, ma semplicemente del suo golem, ormai totalmente fuori controllo.
Non occorre essere messianici, per trovare in questi eccessi una perdita di significato, che è proprio il contrario di quello che, teoricamente si vorrebbe raggiungere. In effetti si tratta di segnare una differenza assoluta tra ricchezza e eleganza che, si sa, è il contrario dell’ostentazione. Mi chiedo se la vera sfida, che alcuni già hanno accettato, non sia proprio quella di riuscire a garantire eccellenza alimentare a prezzi accessibili. Se il grande ristoratore non sia colui che accetta la sfida dell’equilibrio, non dell’esclusività. Perché, credetemi, è molto più facile fare un ottimo pesto da vendere 1000 euro al chilo che uno altrettanto buono o certamente buono a 10-20 euro.
Da qualche tempo, anche alcuni tra i cuochi più rinomati, si dedicano a mense di Natale o della Caritas o dei detenuti, per non parlare dei teatri di guerra. Forse è un’esigenza di normalità, la necessità di tornare all’essenziale che è nutrire con gioia e competenza, il dubbio è che non sia una sorta di green (food) washing alimentare. Forse potremmo dire tutto questo gran parlare che si fa, ovunque, di cibo, rischia di costruire una sorta di realtà aumentata, che, piuttosto che di cultura, somiglia a una sovracultura, se non a una mercificazione della cultura, agricola e alimentare in particolare. Lo scopo dell’agricoltura è fornire alimenti, creare convivio, la tavola è di sua natura inclusiva, non esclusiva. Forse è tempo di tornare all’essenziale e di smetterla di costruire dei mostri e di fare meno …chiacchere e più sostanza. © RIPRODUZIONE RISERVATA
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