Le notizie di martedì 25 febbraio sul conflitto in Ucraina

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Che cosa è successo fino a qui – Dalla newsletter Prima Ora

(di Gianluca Mercuri) «Presidente, noi vorremmo davvero sentire le sue parole perché tutto il nostro popolo, ogni famiglia, vorrebbe sapere se possiamo contare sul vostro aiuto».

Volodymir Zelensky si è rivolto così a Donald Trump, durante il vertice in videocollegamento del G7 cui ha partecipato nel terzo anniversario dell’aggressione russa all’Ucraina. Il leader di Kiev, coperto di insulti dal presidente americano nei giorni precedenti, ha scelto l’unica via possibile: di fronte all’incubo di un’America schierata con la Russia si tratta ormai di salvare il salvabile, di ridurre il più possibile il danno che il duo Trump-Putin si appresta a recare al Paese aggredito. Un danno inimmaginabile fino a poche settimane fa, una sorta di spartizione – così ne parla a Giuseppe Sarcina l’ex consigliere per la sicurezza nazionale di Trump John Bolton – tra le due superpotenze ora amiche, con la Russia che si prende le terre fisiche e l’America le terre rare, entrambe terre ucraine, regioni su cui Kiev ha esercitato la sovranità fin dalla sua indipendenza e minerali rari e preziosi su cui dovrebbe costruire il suo futuro.

Zelensky è debole, forse spacciato anche personalmente, ma non del tutto solo. Con lui è rimasta l’Europa, la famosa Europa senz’anima, l’Europa inerme, l’Europa che non conta nulla e che invece, tra le sue conclamate debolezze, si sta confermando la meta-patria di cui dovremmo andare orgogliosi. Perché con tutti i suoi limiti e le sue divisioni, lo choc trumpiano ha prodotto nell’Europa il consueto scatto cui la inducono le crisi. Insufficiente? Possibile. Inesistente? Falso. Vediamo perché.

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  • All’Assemblea generale dell’Onu, la risoluzione presentata dall’Ucraina e dagli europei, che difende l’integrità territoriale del Paese aggredito e condanna l’invasione russa, è stata approvata con 93 voti favorevoli, 18 contrari e 65 astensioni. Tra i contrari, uno schieramento che meriterebbe un editoriale perché dice molto dell’epoca in cui siamo: Stati Uniti, Russia, Bielorussia, Mali, Nicaragua, Corea del Nord, Ungheria, Israele. Astenuti Iran e Cina. In serata, al Consiglio di Sicurezza, l’America è riuscita a far approvare (con l’astensione franco-britannica) una brevissima risoluzione che chiede la «rapida fine della guerra».
  • Dopo che quasi tutti i capi di governo lo avevano difeso nei giorni scorsi dagli attacchi di Trump, ieri a fianco di Zelensky c’erano le due massime cariche dell’Unione – la presidente della Commissione Ursula von der Leyen e il presidente del Consiglio europeo António Costa – e i leader dei Paesi vicini, i più minacciati dalla Russia. A Bruxelles, intanto, l’Ue ha approvato il 16° pacchetto di sanzioni contro la Russia e cominciato a discutere il 17°.
  • A Kiev c’era anche il premier canadese Trudeau, presidente di turno del G7. E con Zelensky c’era soprattutto il presidente francese Macron, che pure era letteralmente accanto a Trump, nello studio ovale della Casa Bianca. Il primo ad affrontarlo, tra pacche sulle spalle e verità da non sottacere. Per esempio, che l’Europa ha speso più dell’America per aiutare l’Ucraina: «Per essere franchi, abbiamo pagato il 60 per cento del totale dello sforzo, erano soldi veri», ha corretto Trump il leader francese davanti ai giornalisti di tutto il mondo.

Macron ha così ottenuto un primo risultato: il via libera di Trump a una forza di interposizione europea di 30 mila uomini, quella che Parigi ha concordato in pochi giorni con Londra, quella cui i russi si sono opposti durante il negoziato diretto con gli americani a Riad. Ma ora Trump dice di aver convinto Putin ad accettarla. E in serata Putin ha confermato.

Un primo risultato simbolico, ma dall’alto valore politico: Macron ha riportato l’Europa nel negoziato, in un asse ritrovato sia con la Gran Bretagna – la lenta Europa ha digerito in pochi giorni la Brexit indigesta per anni – sia con la Germania. Il cui cancelliere in pectore Friedrich Merz, reduce dal successo elettorale di domenica, parla con forza di Europa da rendere indipendente dagli Stati Uniti, di spese per la difesa da aumentare e di protezione nucleare franco-britannica da estendere a tutto il continente. Sviluppi stupefacenti, e tutti in pochi giorni: ci sarebbe quasi da ringraziare Trump, che ha costretto l’Europa a guardarsi allo specchio. E nello specchio l’Europa ha visto qualcosa, un primo riflesso di sé.

C’è anche l’Italia? Ovviamente sì, ma con un riflesso più opaco. Una scelta precisa di Giorgia Meloni, che non vuole incrinare il rapporto privilegiato subito avviato con Trump – ieri «Donald» ha elogiato ancora una volta la «leadership di Giorgia» – ma non può smentire due anni e mezzo da statista filo-ucraina. Così, se è stato imbarazzante vedere che in questi giorni di fuoco – unica leader importante dell’Ue – non ha mai difeso la persona e il ruolo di Zelensky, è stato rassicurante constatare che non abbandona Kiev alla tracotanza tramputiniana. Al G7, dunque, come riporta Monica Guerzoni, Meloni ha concordato «sull’urgenza di mettere fine alla “guerra ingiusta” scatenata da Putin. Ma se per il presidente Usa non è stata Mosca a invadere l’Ucraina, Meloni parla di “aggressione russa”. Formula che cerca poi di riequilibrare ricordando, con accenti che riecheggiano Trump, come la guerra abbia provocato distruzione e “un numero inaccettabile di morti”».


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