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Il peso dei capitali internazionali, i soci e le authority, Ma chi decide? Archiviata l’epoca dei manager ingombranti, si apre il tempo degli azionisti che picchiano i pugni sul tavolo
Anche nel governo delle società si percepisce che l’aria è cambiata. Non è necessario che mutino le regole perché ciò avvenga. Contano gli atteggiamenti degli attori, conta l’inarrestabile forza degli eventi geopolitici. Se si mettono in discussione i principi di una democrazia liberale — per esempio la divisione dei poteri o il primato del diritto nell’attività governativa — non è pensabile che questo sommovimento non incida profondamente anche sul mondo dell’economia e della finanza. Del resto quello che sta avvenendo, e non solo negli Stati Uniti, è frutto dell’addensamento storico delle ricchezze generato dall’innovazione tecnologica.
Gli oligarchi del web e lo stato di diritto
Agli oligarchi del web poi va stretto, strettissimo, lo stato di diritto con tutte le sue lente procedure. L’effetto imitazione è irresistibile. La prima conseguenza, nella governance societaria, da quando Donald Trump è alla Casa Bianca, è una visibile inversione di tendenza sui temi della sostenibilità, della finanza verde e della cosiddetta diversity. Così repentina da farci sospettare che molti propositi fossero del tutto insinceri e strumentali.Sulle politiche inclusive, anche nelle aziende di cultura più solida, si assiste a una prudente pausa di riflessione.
Il riflesso nelle assemblee societarie
Ma non di questo vogliamo occuparci in questo articolo, bensì della dinamica dei poteri societari divenuta, grazie all’air du temp, più diretta, ruvida, muscolare. E ne sappiamo qualcosa anche noi nell’assistere ai continui colpi di scena del cosiddetto risiko bancario. Mentre si attendono le decisioni degli organi di vigilanza, interni ed europei e si strologa su passivity rule, minoranze di blocco, alleanze e quant’altro dei nostri istituti di credito, sfugge il piccolo particolare che gran parte del potere è in capo ai fondi internazionali. Cioè a soggetti molto diversi dalle società per azioni, la cui governance è tanto suggestiva quanto opaca e spesso legata non solo agli interessi ma anche agli umori di chi detiene una massa ingente di capitali.
E magari, insieme ai capitali, il potere statale quando si tratta di fondi sovrani. Saranno soprattutto i grandi fondi internazionali a decidere l’esito finale della partita italiana del credito.
La profezia: il tramonto delle spa
Nel commentare il momento generale che stiamo vivendo, al di là della specifica questione bancaria, Piergaetano Marchetti, professore emerito di Diritto Commerciale all’Università Bocconi, richiama l’attualità del pensiero di un grande giurista del Novecento. Tullio Ascarelli (1903-59) indagò a fondo sulla pericolosità dei monopoli e sulla pervasività degli intrecci e delle collusioni tra azionisti. E ne denunciò i pericoli in uno dei celebri convegni de Il Mondo di Mario Pannunzio.
Può sembrare paradossale ma stiamo tornando indietro. Marchetti lo ricorda anche nel saggio introduttivo «Le spa nell’epoca della sostenibilità e della transizione tecnologica» (Giuffré). Nella stessa opera collettanea, Mario Cera, ordinario di Diritto commerciale all’Università di Pavia, riscopre l’attualità di una riflessione di Guido Rossi su Il Giorno del 1974 dal profetico titolo Il tramonto delle spa. Commenta l’avvento massiccio degli investitori istituzionali «con il loro seguito quasi social, di proxy advisor e quant’altro».
Semplificazione e trasparenza
Sono sempre di più i capitali che vanno verso società a struttura più semplice, come le srl, meno trasparenti. Per non parlare di tutta la finanza digitale e le criptovalute. «Se non vi è mercato delle azioni — chiosa Cera — non vi sarà più società per azioni. I mercati per rispondere davvero agli interessi generali, variamente intesi, devono essere regolamentati e le grandi società quotate con i loro azionisti rilevanti devono essere veramente trasparenti. Il grande progresso finanziario, dall’800 ai giorni nostri, ha fatto leva proprio su questa combinazione. Il rischio quindi è di un regresso».
L’esodo dalle Borse è un altro sintomo, in Italia più significativo che altrove. Il ritorno dello Stato nell’economia è sospinto dalle grandi sfide della transizione. E sinceramente appare inevitabile. Nel nostro Paese però è sotto gli occhi di tutti (ma se ne discute assai poco) l’anomalo ruolo di un governo che è parte della sfida finanziaria e appoggia la scalata di Mps a Mediobanca. E poi si arroga, con l’uso allargato del golden power, la facoltà di determinare gli esiti di alcune vicende societarie.
La legge Capitali del 5 marzo 2024 ha poi inciso (con un occhio di riguardo ai gruppi Caltagirone ed Essilux) sui rapporti di potere tra management (qualche volta troppo autoreferenziale) e azionisti, con una norma discutibile ed enormemente complessa sulla lista del consiglio d’amministrazione.
Gli azionisti forti e i plutocrati
«L’azionista forte — commenta Marco Ventoruzzo, ordinario di Diritto Commerciale alla Bocconi — è oggi più incline a picchiare i pugni sul tavolo. E assistiamo sempre più di frequente, nei Paesi del capitalismo democratico, alla formazione di plutocrazie di azionisti con rapporti ambigui con governi sempre più impegnati ad essere giocatori anziché arbitri. Pare in discussione l’era dello strapotere dei manager a dispetto della volontà degli azionisti. Un riequilibro in parte necessario ma che impone attenzione alla concentrazione degli assetti proprietari. Si è poi esagerato con la compliance? Certo, si è ridotto il grado di utilità dei consigli di amministrazione nei quali si parla poco di gestione e di strategie. Le assemblee societarie sembrano seguire, in parallelo, i grami destini degli organi legislativi. Sono a questo punto necessarie regole meno pervasive con se mai maggiore spazio alle authority come Consob ed Esma, in un quadro però di collaborazione virtuosa con il mercato».
Il lato normativo e la riforma del Tuf
Nel Decreto Milleproroghe appena approvato in via definitiva, la modalità di svolgimento a distanza delle assemblee societarie è slittata al 31 dicembre 2025. Il Covid è finito ovunque meno che nelle società per azioni. La libertà di intervenire dei soci resta curiosamente limitata. Gli investitori internazionali non hanno gradito. L’insoddisfazione per l’eccessivo peso burocratico delle norme si sta trasformando in una insofferenza palpabile, visibile.
La semplificazione è una necessità operativa. E probabilmente ne terrà conto la commissione istituita dal ministero dell’Economia che sta lavorando alla revisione del Testo unico sulla finanza (Tuf). Nell’apoteosi del conflitto d’interesse tra politica e grande capitale le regole sulle operazioni tra parti correlate sembrano non avere più alcuna giustificazione. Con tutti i rischi connessi al diffondersi di pratiche collusive e dell’aumento della discrezionalità politica.
Il Regno Unito le ha recentemente annacquate, limitandole alle operazioni di una certa rilevanza e quando vi sono partecipazioni sopra il 5%. Persino nel Delaware, lo stato americano più permissivo, nel quale Elon Musk aveva la sede di Tesla, prima di spostarla in Texas, sono state semplificate le operazioni tra società partecipate o controllate. Il legislatore ha risposto così alla sentenza di un giudice dello stesso stato che bloccava il super compenso di 55,8 miliardi che Musk si era autoassegnato. L’autorità giudiziaria si è adeguata. In linea con i tempi.
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