Mafia, gli ultimi arresti in Sicilia ed il disastro delle “nuove leve”

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 Sarà l’ennesima fiction, c’è qualche nuovo commissario in tv, avranno pensato, mentre vedevano sfrecciare volanti e gazzelle, a sirene spiegate, per le vie del centro. Sarà un’esercitazione, si saranno detti, con il naso all’insù mentre osservavano gli elicotteri fare sali e scendi sulla città. Invece era tutto vero. Solo che Palermo, a queste scene non era più abituata da un pezzo, i siciliani avevano perso confidenza, e gliel’hanno dovuto spiegare, cos’era: qualche giorno fa, l’11 febbraio, la città è stata teatro di un imponente blitz antimafia delle forze dell’ordine, roba che non si vedeva dai tempi della lira, di Totò Schillaci, della Piovra in tv. Più di milleduecento agenti in campo, centottanta arresti.

In effetti, si sono dovuti scomodare gli ormai ottuagenari ed annoiati cronisti della guerra alla mafia che fu per cercare un precedente: era addirittura il 1984, la data il 29 settembre, trecentosessantasei i mandati di cattura – allora si chiamavano così – per altrettanti mafiosi, grazie alle rivelazioni del pentito per eccellenza, Tommaso Buscetta. La notte di San Michele, la chiameranno, l’inizio degli eventi che poi porteranno allo storico maxiprocesso alla mafia.

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Qui il contesto è diverso. Di maxi ci sono i numeri degli arrestati, il dispiegamento di forze, l’impatto comunicativo dell’operazione, che ha occupato le prime pagine ed i servizi di apertura dei tg, e ispirato tweet di compiacimenti e congratulazioni della premier Giorgia Meloni, video del Ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, cori di commenti sullo Stato che c’è, lo Stato che vince, lo Stato che non arretra.

 

Ma, dunque, è ancora così potente la mafia? Centottanta arresti in un colpo solo, quando per mesi ci hanno detto che mafiosi in giro non ce n’erano più, che morto Matteo Messina Denaro non se ne faceva un altro, e che adesso i problemi erano le mafie degli altri, la mafia albanese e quella nigeriana, la mafia russa e la Sacra Corona Unita.

Ma come stanno dunque le cose? Mettiamo un po’ d’ordine, adesso che le sirene si sono spente, e il clamore è cessato. Innanzitutto, non si è trattato di una maxi operazione antimafia, così come è stata raccontata. Piuttosto, con una trovata che dal punto di vista della comunicazione –anche l’antimafia vive di marketing, che vi pare – ha avuto un enorme impatto, sono state unite, in un unico blitz diverse operazioni disgiunte, diversi filoni di inchiesta, su fatti e personaggi anche lontanissimi tra loro. Certo, tutti hanno il comune denominatore dell’appartenenza all’associazione mafiosa, ma è bene chiarire che si tratta dell’unione di diverse inchieste, ben otto, che da sole avrebbero conquistato a fatica le pagine della cronaca regionale. Insieme, invece, sono state l’equivalente del Festival di Sanremo della procura antimafia.

Entrando nel merito, poi, tante cose ci sono da dire.

La principale è che alla mafia, purtroppo, non crede neanche più la mafia stessa.

Nelle intercettazioni di boss e presunti tali, infatti, emerge come una malinconia diffusa, un che di decadente. Sembrano dire: che stanchezza. Loro stessi sanno che interpretano ormai una specie di “pupiata”, che “fanno” la mafia, si, provano a fare estorsioni, certo, a gestire il traffico di droga, vorrebbero reinventarsi la Cupola, ma sono pochi e mal messi. E non hanno grande fiducia nelle giovani generazioni. A proposito di giovani. Dei centottanta arrestati, ben novantaquattro, più della metà, hanno meno di quarant’anni.

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È stata data grande eco, nei commenti all’operazione, all’utilizzo della tecnologia da parte dei nuovi boss. Dalle carte emergono infatti comunicazioni schermate, criptotelefonini e altre diavolerie per non farsi intercettare. Tanto che in molti si sono avventurati a parlare di “tecno-mafia”, perché i padrini, udite udite, si fanno le videochiamate, o si mandano i messaggi su Telegram. Ma in realtà, anche questa è storia antica: semplicemente, come noi, anche loro sono figli del nostro tempo. Se uno prende le relazioni della Direzione Investigativa Antimafia degli ultimi venti anni, si ripete ogni anno l’espressione «le mafie sono in grado di utilizzare le nuove tecnologie». Quindi non ci deve migliorare che i mafiosi conoscano quelli che i giornali chiamano i “meandri oscuri della rete”, dove «con un click si assoldano sicari».

Che poi è vero fino ad un certo punto. Perché, ad esempio, molti finiscono nella rete di questi arresti proprio perché sono dentro una chat di gruppo che due mafiosi avevano creato, credendo di non essere intercettati (e invece avevano gli smartphone sotto controllo, grazie al trojan utilizzato dagli investigatori). Chi di tecnologia ferisce, di tecnologia perisce, è il gioco della vita.

E poi, questi “giovani leoni” di Cosa nostra, che fanno sprecare fiumi di inchiostro sulla “voglia di mafia”, delle giovani generazioni, sono dei minchioni, con rispetto parlando, già secondo i loro maestri. Giancarlo Romano, ad esempio, capomafia di Brancaccio, il quartiere di Don Puglisi, è intercettato mentre, sconsolato, rimprovera una delle nuove leve: «A scuola te ne devi andare!». A scuola di mafia? No, a scuola proprio. Romano è dispiaciuto perché il giovanotto neanche sa parlare italiano, neanche sa stare a tavola, comportarsi come si deve. «Sembriamo degli zingari» dice. E aggiunge: «Se tu parli con quelli che fanno business, ti ridono in faccia. Ma questo business è? Siamo troppo bassi, siamo a terra ragazzi».

«Il livello è basso», dicono altri indagati, intercettati. Sono piccoli alfieri della mafia che fu, gente che ha fatto una vita ad entrare e uscire di galera, prendendo il testimone da chi c’era prima di loro e convinta che di passare il testimone a qualcun altro. E invece la catena si è spezzata. Sempre Romano, suggerisce al suo allievo di »conoscere avvocati, dottori». O di guardare il Padrino «per il potere che si era costruito a livello politico in grossi ambienti» (in ciò, dobbiamo dire, cogliendo un aspetto fondamentale della trilogia).

Nella disperazione, si inventano pure gli stage sul campo, una specie di “alternanza scuola-lavoro” della mafia. Un tale, Giuseppe Marano, settantuno annid, della famiglia di Corso Calatafimi, dice ad un picciotto di seguirlo in un negozio di abbigliamento, per capire come si fanno le estorsioni: «Vieni qua che ti insegno, tu senti parlare me». Sono molti i consigli che gli dispensa, tra cui l’umiltà. «Man mano che vai camminando, devi essere umile… scaltro – spiega al giovane – fai parlare sempre a lui, l’ultima versione è la sua». Il giovane però non è cosa. Quando, come compito a casa, l’anziano Marano gli affida il compito di chiedere il pizzo in un piccolo cantiere che sta ristrutturando un immobile, quello va, bello bello, avvicina un tale, si ferma a parlare. Poi torna sconsolato: ha sbagliato persona, quello era un elettricista di passaggio… Questi giovani che vogliono fare i mafiosi e non sanno farlo, hanno poi un grande difetto: fanno i video, i selfie, si atteggiano a boss, come se vivessero in una puntata di “Mare Fuori”.

Non sanno fare un’estorsione, ma sanno a memoria tutti i codici di Cosa nostra, e anzi, ne inventano nuovi, per darsi arie. Ad esempio, si baciano. Ma no come si bacia tra veri maschi siciliani, guancia contro guancia e schiocco delle labbra. Bacci in bocca, labbra che si sfiorano. E anche lì, gli anziani impazziscono, per quella che chiamano «una nuova moda di “vastasi”, anzi, “una pagliacciata”». Due boss intercettati sono così delusi per certi comportamenti che addirittura parlano di Cosa nostra come di «immondizia organizzata»: «Si baciano in bocca – si lamentano – hai capito? Ora questa è un’altra novità che si baciano in bocca!». «Vabbè – dice l’altro – è una legge… stile mafiosi». Ma il più anziano ribatte: «No, i mafiosi non si baciavano in bocca, io non mi sono mai baciato in bocca con quello, con quello… questi che fanno queste cose sono vastasi, pagliacceria…». “Pagliacceria rusticana”, verrebbe da dire, facendo crasi delle due opere di Mascagni e Leoncavallo, tradizionalmente presentate insieme.

Piuttosto c’è una cosa grave. Perché l’inchiesta racconta anche di mafiosi che dal carcere, quasi fossero in smart working, con i loro telefonini gestivano il traffico di droga e organizzavano pestaggi. In carcere i telefonini, entrano, e prendono benissimo. Anzi, in carcere entra di tutto: smartphone, tablet, powerbank e caricatori. Ma davvero questo fenomeno non si riesce ad arginare? Anzichè teorizzare, anno dopo anno, i pericoli della “tecnomafia” (altra espressione abusatissima), perché non si cerca concretamente di evitare che le carceri italiane sia una specie di co-working di Cosa nostra? Schermare un edificio, ad esempio, non sembra cosa difficilissima. Anche depotenziare il segnale di una rete di telefonia in una determinata area. Già si fa in molti casi. Perché è così difficile farlo in carcere?

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Nel 2018 il Dap, il Dipartimento per l’Amministrazione Penitenziaria, aveva acquistato degli inibitori di frequenze (i “jammer”), che però non sono stati mai utilizzati. Settantasette mila euro, più iva, per quarantasette jammer. Non sono stati mai utilizzati. Per problemi di formazione del personale, per timore degli effetti delle radiofrequenze, per interferenze varie che potrebbero generare. Si sta pensando, adesso, dice il vice ministro della Giustizia, ad un progetto sperimentale di schermatura di alcuni istituti di pena, con altri jammer di nuova generazione, più potenti. Bisogna capire però dove e come collocarli sugli edifici. Insomma, non servono milleduecento agenti per lottare la mafia, bisogna trovare un bravo antennista…





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