La Conferenza delle Parti sulla biodiversità affronterà in particolare due temi cruciali: il fondo globale per la biodiversità e il monitoraggio dei progressi nazionali. L’obiettivo è ambizioso: raccogliere 200 miliardi di dollari all’anno per proteggere la natura. Ma le divisioni politiche, la crisi economica e la mancanza di impegni concreti rischiano di compromettere il successo dell’iniziativa
Dal 25 al 27 febbraio, Roma diventa il centro nevralgico della diplomazia ambientale con la ripresa della COP16 sulla biodiversità. Dopo il mancato accordo di Cali lo scorso novembre, i delegati si riuniscono nuovamente nella sede della FAO per discutere due temi chiave: il finanziamento della tutela ambientale e la definizione di parametri chiari per monitorare i progressi globali.
Un vertice sospeso tra speranze e timori
L’obiettivo della COP16 è ambizioso: raccogliere 200 miliardi di dollari all’anno per proteggere la biodiversità. Tuttavia, le difficoltà incontrate a Cali restano attuali. Nonostante l’accordo Kunming-Montreal del 2022 avesse stabilito la necessità di fermare la perdita di biodiversità entro il 2030, le modalità di finanziamento rimangono nebulose. A complicare il quadro, la ritirata degli Stati Uniti da alcuni impegni di cooperazione internazionale sotto la nuova amministrazione Trump.
Le promesse economiche fatte finora non sono neanche lontanamente sufficienti: a Cali, si erano raccolti appena 163 milioni di dollari contro i 30 miliardi richiesti per il 2030. La COP16 di Roma rappresenta dunque un ultimo tentativo per colmare il divario finanziario e trovare meccanismi concreti per distribuire e gestire i fondi destinati alla biodiversità.
Il dilemma finanziario
Uno dei principali punti critici della discussione riguarda la ripartizione dei costi. I Paesi a basso reddito, spesso custodi delle aree più ricche di biodiversità, chiedono contributi più sostanziosi ai paesi sviluppati e alle multinazionali che traggono profitto dalle risorse naturali. Al contrario, l’Europa e altri stati ricchi ritengono che anche le economie emergenti debbano fare la loro parte, contribuendo con finanziamenti adeguati.
Le soluzioni in discussione comprendono la creazione di un nuovo fondo per la biodiversità, o il potenziamento di strutture già esistenti come il Global Biodiversity Framework Fund gestito dal GEF. Tuttavia, i Paesi in via di sviluppo, tra cui il Brasile e la Repubblica Democratica del Congo, temono che una governance centralizzata possa limitare il loro potere decisionale sull’uso dei fondi.
Monitoraggio e trasparenza: il nodo dei controlli
Oltre ai finanziamenti, un altro aspetto cruciale è la definizione di parametri chiari per misurare i progressi nella protezione della biodiversità. Ad oggi, più della metà dei Paesi firmatari non ha presentato piani concreti per il rispetto dell’impegno “30×30”, ovvero proteggere almeno il 30% della terra e dei mari entro il 2030.
La mancanza di chiarezza negli impegni nazionali rischia di vanificare gli sforzi. Senza dati certi su chi sta facendo cosa, l’intero sistema potrebbe collassare per mancanza di responsabilità. Alcuni Stati, come la Norvegia e l’Indonesia, si oppongono a vincoli troppo stringenti, temendo ripercussioni sulle loro industrie strategiche.
L’impegno europeo per un accordo globale
L’Unione Europea vuole giocare un ruolo chiave nei negoziati di Roma, con l’obiettivo di superare gli ostacoli rimasti irrisolti a Cali. In un comunicato stampa pubblicato alla vigilia del vertice romano, la Commissione Ue ha spiegato che punta a garantire un finanziamento costante alla biodiversità anche dopo il 2030, mobilitando risorse da fonti pubbliche e private. La Commissione europea ha annunciato il raddoppio dei finanziamenti internazionali per la biodiversità a 7 miliardi di euro per il periodo 2021-2027, con iniziative di punta come NaturAfrica, un programma da 1,4 miliardi di euro.
Un altro punto centrale delle trattative riguarda l’istituzione di un solido quadro di monitoraggio per valutare l’attuazione del Global Biodiversity Framework. L’Ue sostiene la necessità di meccanismi di revisione chiari e trasparenti, per garantire che gli impegni presi dai Paesi non restino solo sulla carta.
Tra realpolitik e necessità ambientali: un fragile equilibrio
Il vertice di Roma si svolge in un contesto geopolitico complesso, dove le crisi economiche e sociali minano la volontà politica di investire nella biodiversità. Le tensioni tra Paesi sviluppati e in via di sviluppo restano alte, e senza una chiara volontà di cooperazione, il rischio di un nuovo fallimento è concreto. Oscar Soria, co-CEO della ONG The Common Initiative, sottolinea la gravità del momento: “Questo potrebbe essere un momento storico, se scegliamo l’ambizione. La domanda è: saremo abbastanza coraggiosi da agire, o lasceremo sfuggire questa opportunità?“.
Con l’avvicinarsi della COP30 a Belém, in Brasile, il successo o il fallimento della COP16 avrà conseguenze decisive sulla credibilità della comunità internazionale nella lotta per la biodiversità.
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