di Paola Siotto
“Ingabbiato, con la mente sana, in un corpo che non funziona”. E’ una vita dignitosa?
A chi spetta valutare la dignità di un’esistenza ormai totalmente dipendente dall’intervento di terzi o dall’ausilio di macchinari per poter attendere alle normali attività umane: mangiare, bere, lavarsi, leggere, esprimersi, urinare, defecare, respirare? Lasciando in disparte, ma non perché prive di importanza, tutte le attività quotidiane, quelle che rientrano nell’area della cosiddetta normalità, talmente ordinarie da risultare, per gli altri, quasi scontate, automatiche, fisiologiche per non dire banali.
Quando la dignità umana, annientata, atrofizzata da una malattia neutralizzante della vita stessa, Vita intesa come Libertà, deve fare i conti con il limite paternalistico della “sacralità” della (non) vita? ma quale vita? La vita ad ogni costo, costi quel che costi, di un corpo che non risponde all’Anima. Un corpo che ogni giorno muore perché non può assecondare i desideri dello Spirito, non può più e non potrà più rispondere agli impulsi di colui o colei che avevano, un tempo, il dominio dei movimenti, delle parole, delle pulsioni.
O forse è lo spirito egoistico della non accettazione. Forse è più facile per chi assiste, per chi accudisce, trasformare l’illusione della speranza nell’attesa necessaria per elaborare un lutto spostato artificiosamente un po’ più avanti nel tempo. Serve tempo, non siamo pronti. Ma chi?
E’ un trattamento di sostegno vitale generalizzato: per il malato, per chi lo assiste, per la società accanita. Le parole: sostegno vitale. Cosa c’è di vitale in un essere umano che decide in modo libero e consapevole di porre fine alle proprie sofferenze fisiche e psicologiche? Forse sarebbe più corretto parlare di un “sostegno mortale” qualora, per un attimo, ci mettessimo dall’altra parte.
L’evacuazione manuale, l’inserimento di cateteri, l’aspirazione del muco dalle vie bronchiali, la totale dipendenza dalla cosiddetta “spina”. Staccarla o tenerla attaccata? Ma per chi? per chi patisce la sofferenza in attesa della fine o per chi, gestore di quei macchinari, esecutore di quelle pratiche, irrequieto osservatore di un corpo morto e di uno spirito annientato e privato di qualsiasi dignità, si aggrappa alla speranza che quella fine non ci sarà?
“La vita è sempre degna di essere vissuta”. Fin dove può ritenersi intangibile questo dogma? Una bandiera sventolata contro lo spiraglio verso la dignità umana aperto dalla Corte Costituzionale nel 2019. Un pertugio, peraltro, inibito ai malati oncologici perché ritenuti non meritevoli di superare quella macabra selezione impartita dallo spartiacque del “trattamento di sostegno vitale”.
La sofferenza fisica e psicologica non basta, l’annientamento delle proprie capacità cognitive e percettive, spesso accelerato dalle cure palliative, qualora sia questa l’unica strada possibile, non basta. L’irreversibilità della malattia non basta. La decisione libera e consapevole, qui, non rileva.
La vita è sempre degna di essere vissuta, anche se non vivi, anche se non sopravvivi, anche se aspetti, con quel poco che rimane di te, la misericordia di un dio o la resistenza della regione Toscana. Dato che il Parlamento, lui sì, ha staccato la spina.
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