l’esperienza di “Will Media” spiegata da Paolo Bovio

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La provocazione con cui si presentano nel loro sito è accattivante: “Stasera, su cosa vuoi fare un figurone a cena?” e, poi, l’invito a scegliere tra cinque aree tematiche. “Will Media” è una start up che è diventata grande: lo scorso gennaio ha compiuto 5 anni, vincendo la scommessa che si possa fare informazione sui social, rivolgendosi a tutti, ma riuscendo a coinvolgere soprattutto i giovani. Nel 2023, Will Media è stata acquisita da Chora Media, fondata da Mario Calabresi, e oggi, insieme, hanno quasi 100 dipendenti che sviluppano contenuti suddivisi tra podcast, video, social media ed eventi.

Paolo Bovio, 35 anni, è responsabile della supervisione dei contenuti editoriali di Will media. Lo abbiamo intervistato a margine della “Due sere giovani” promossa dall’Azione cattolica, cui ha preso parte insieme ad Alessandra De Poli, giornalista di AsiaNews, sul tema “Social: dalla distrazione all’informazione. Coltivare consapevolezza in un mondo che va veloce”.

Che cos’è Will media?

Finanziamenti e agevolazioni

Agricoltura

 

È una community aperta. Siamo arrivati a oltre 1,9 milioni di persone. La proposta di Will è “prendi parte al cambiamento”. Serve essere curiosi del mondo e voler crescere nella consapevolezza di quello che viviamo, e di cosa si può fare per stare dalla parte del cambiamento, avendo delle bussole per navigarlo, perché è un tempo molto veloce e molto complesso. La chiave per entrarci, secondo noi, è la consapevolezza, che è la missione che ci siamo dati. Contribuire a un dibattito pubblico che parta dai dati, piuttosto che dai sentito dire, dalle polemiche o persino dalle notizie false.

Però la community prova a fare un passo in più. Come?

Siamo nati il 20 gennaio 2020, e dopo aver vissuto un anno e mezzo in piena pandemia, non appena è stato possibile, siamo partiti con il progetto Will Meets, per guardarsi in faccia, ascoltarsi: un tour in 20 tappe in giro per l’Italia, un momento di grandissima generosità da parte di tante persone. Ci ha arricchito molto e il percorso successivo si è basato anche su quello che abbiamo ricavato in quegli incontri, che poi abbiamo continuato a fare. Per noi community è anche un modo di stare online: il vero vantaggio dei social è che ci permettono un dialogo “uno a uno”. A differenza dei vecchi mezzi di comunicazione che erano “da uno a molti”, i social permettono un’interazione orizzontale. Diverse realtà, purtroppo, pubblicano dei contenuti e basta. Invece, per noi, la pubblicazione è il punto di arrivo e, insieme, di partenza, perché si inneschi una discussione nei commenti.

Come riuscite a mantenere la qualità del confronto?

Abbiamo delle persone dedicate il cui lavoro è proprio rispondere, raccogliere domande, stimolare dibattito di qualità. Ci sono anche le critiche, ovviamente. A volte è stata la community a farci sviluppare un tema, come quello delle città. Noi nasciamo per raccontare il cambiamento economico, tecnologico, demografico, climatico, ma abbiamo visto nei commenti che, quando raccontavamo certe questioni incarnate nella dimensione urbana, la risonanza era molto maggiore. È stata la community ad accompagnarci a parlare di più delle città e oggi abbiamo un podcast settimanale che si chiama proprio “Città” e abbiamo creato per il secondo anno il festival “Future for Cities” dedicato all’innovazione sociale, alle città del futuro: un progetto che seguo personalmente.

E i giovani partecipano alla community?

Abbiamo iniziato a fare informazione sui social anche per dimostrare che non è vero che i giovani non hanno interesse a informarsi. È un pregiudizio, forse non trovavano in tanta informazione tradizionale una risposta ai loro bisogni di comprendere un mondo che cambia. E siamo convinti che sui social si può fare informazione seria, di qualità, però bisogna saper parlare quel linguaggio. Su Instagram i tre quarti della nostra community sono persone tra i 20 e i 35 anni: direi che l’assunto secondo cui ai giovani non interessa informarsi è respinto a partire dai dati. Certo, bisogna capire quali sono i temi che interessano i giovani. Hanno delle domande specifiche che non hanno sempre grande spazio nel dibattito pubblico, sull’orientamento, sul lavoro, spesso precario, frammentato, sottopagato, da cui sono colpiti, come ci raccontano i dati sull’occupazione. Parlare di queste cose significa anche dare voce a questi fenomeni. Oppure, l’accesso alla casa, un tema enorme per le giovani generazioni, per non parlare della difficoltà a diventare genitori per ragioni economiche. O la grande questione ambientale.

Conto e carta

difficile da pignorare

 

Come riuscite a fare profitti in questo campo?

E’ un’attività che richiede tanto impegno, e produzione di contenuti, anche multimediali. La via che ha scelto Will è quella che viene chiamata “branded content”, contenuti brandizzati. C’è la partnership con un certo brand che sceglie di associarsi a Will non perché vuole raccontare un prodotto o servizio, quella è pubblicità, ma vuole associarsi a noi per raccontare un proprio valore. Facciamo un esempio: io sono un grande brand che produce energia, voglio raccontare il mio impegno per la sostenibilità e raccontare come dalla sfida dell’elettrificazione passa tanto della transizione ecologica: nei prossimi 15 anni dobbiamo costruire tante linee elettriche al mondo, quante ne abbiamo fatte negli scorsi 100 anni. Tutti i contenuti che vengono realizzati con una sponsorizzazione vengono dichiarati, per la trasparenza nei confronti della community. Perché alla fine si regge tutto su un patto di fiducia.

E i media tradizionali, dal suo osservatorio, che futuro hanno?

I giornali, le radio, le televisioni sono nati in un certo periodo storico e oggi sentono un po’ la fatica, ma i giornali locali, di comunità, come il vostro, sono un patrimonio di conoscenza del territorio, rappresentano un legame con una comunità, godono di fiducia, una cosa preziosissima. Ci sono dati, sugli Stati Uniti ad esempio, che mostrano come la polarizzazione politica sia minore dove c’è una presenza di giornali locali, perché contrastano quella sensazione di frustrazione, di sentirsi lasciati indietro, di non far parte del dibattito pubblico. Al contempo, è chiaro che il digitale è una rivoluzione continua. Ciascuno è sfidato a trovare le proprie mediazioni.



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