BERLINO – “Quante frontiere bisogna attraversare prima di raggiungere casa?” si chiedeva Theo Angelopoulos nella sua trilogia sui confini. E l’eco di quella domanda risuona nel film in Concorso alla Berlinale Yunan, opera seconda del regista Ameer Fakher Eldin, nato in Ucraina da genitori siriani, vissuto sulle Alture del Golan occupate, che torna qui ad esplorare il tema dell’esilio e dall’essere lontani dalla propria casa. Una pellicola sussurrata e poetica, che si sviluppa attorno a sguardi appena percettibili, piccoli atti e momenti di gentilezza non urlati, mentre si interroga sull’identità e su quello che accade quando il senso di casa e di appartenenza viene meno. Esplorando una dimensione esistenziale che va oltre la semplice domanda legata all’alienazione geografica, ma coinvolge in maniera più ampia il senso di estraneità rispetto al luogo da cui proveniamo.
Ameer Fakher Eldin e la trilogia dell’esilio
Opera seconda del regista, dopo il suo esordio The Strangers acclamato a Venezia 2021, che torna a esplorare il tema dell’esilio, di cui ha annunciato un terzo capitolo, ispirato alla sua peculiare esperienza di vita: “Solitamente, quando sentiamo parlare di esilio, lo associamo al movimento, al fatto che qualcuno debba o sia costretto a spostarsi a causa di guerre e crisi nazionali. Ma nella mia situazione si trattava solo di un confine: non ho mai dovuto spostarmi dalle Alture del Golan, eppure la mia casa stessa è stata separata dalla sua patria, che è la Siria. E così, vivere lì significava semplicemente avere un confine e non poter attraversarlo. Sentivo che oltre c’era una patria che non conoscevo, in cui non ero mai stato. Questa esperienza di esilio ha in qualche modo plasmato l’intera idea della trilogia. Come ho detto, esplorerò fondamentalmente il tema della casa, sia nel passato, nel presente che nel futuro”.
Yunan, la co-produzione con l’Italia
Il film racconta la storia di uno scrittore arabo in esilio, interpretato da Georges Khabbaz, che si reca su una remota isola della Germania per suicidarsi. Ma la misteriosa Valeska, interpretata dalla musa di Fassbinder Hanna Schygulla, lo riporta gradualmente alla vita con piccoli gesti e poche parole di gentilezza. Una coproduzione Germania, Canada, Francia, Italia, Palestina e Giordania, prodotta per l’Italia da Intramovies. Per la sua realizzazione ha ricevuto, tra gli altri, il contributo dell’Apulia Film Fund e un finanziamento di 150.000 euro dal Bando co-produzioni minoritarie (anno 2024) della Direzione generale Cinema e audiovisivo del MiC.
Le riprese in Puglia, non-luogo che è casa
Girato principalmente in Germania, Yunan vanta alcuni giorni di riprese a Gravina in Puglia, Minervino Murge, Poggiorsini e Spinazzola, dove sono ambientare le scene che fanno riferimento alla ‘casa’ di origine. “Volevo un posto che fosse come una “terra di nessuno” – ha detto il regista a proposito della scelta delle location in Italia – Un luogo dove non c’è civiltà, ma solo valli che lasciano l’essere in uno stato sospeso. Dopo aver fatto diverse ricerche abbiamo trovato questo posto bellissimo in Puglia, un luogo che appare come un sogno, così come lo è nel film. Inoltre, volevo qualcosa di caldo, una temperatura che mi ricordasse casa.
Ma qui c’è un altro spunto: casa è ovunque tu ti senta a casa, o ovunque sia possibile qualcosa che ricordi casa. La prima volta che ho incontrato Hanna, dopo averle raccontato il film mi ha detto: “Perché una persona non potrebbe avere due case?” Una domanda che mi ha fatto riflettere. Per avere due case, dobbiamo fare due scelte. O continuiamo a vedere gli altri, gli stranieri, come una minaccia, o lasciamo andare e ci concediamo l’esperienza umana, godendoci la nostra umanità insieme, accettandoci senza etichettarci, o etichettare gli altri. Questo per me, in qualche modo, significa casa.”
Le isole ‘Halligen’ e il ciclo dell’eterno ritorno
L’isola remota in cui il protagonista si rifugia per isolarsi dal mondo fa parte delle Hallingen, gruppo di piccole isole nel mare del nord della Germania la cui superficie, durante le maree più alte, viene temporaneamente inghiottita dal mare per poi farla riemergere nuovamente. “Non si trattava solo di un di un’ambientazione, dice il regista, ma una metafora perfetta per il ritmo della storia: sommersione, perdita e ritorno. Ciò che scompare non è sparito per sempre, ma quando torna non è immutato. Quest’idea è diventata centrale per il mio approccio al film, che si basa sul non detto e sull’esplorazione degli spazi silenziosi lasciati alle spalle”.
Così, mentre l’allontanamento rimodella la comprensione di se stessi e di cosa significhi casa, non c’è nel film il conforto di un ritorno o l’illusione che si possa semplicemente tornare indietro e rimettere le cose a posto. Anche quando torniamo, un senso di distanza rimane, cambiando il modo in cui vediamo ciò che pensavamo di conoscere.
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link