Ex Ilva, cassa integrazione e vendita. I sindacati sul piede di guerra

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Nessuno si aspettava che l’incontro di ieri al ministero del Lavoro sul rinnovo della cassa integrazione straordinaria per un anno in Acciaierie d’Italia si chiudesse con un accordo o facesse intravvedere la fumata bianca.

Troppo poco un solo incontro di qualche ora per dirimere una questione complessa come l’ex Ilva. Però il tavolo di ieri due indicazioni le ha date. La prima è che si tratterà sul rinnovo della cassa integrazione, ormai prossima alla scadenza, guardando a cosa succede sul tavolo dove i commissari, esaminati i rilanci arrivati da Baku Steel e Jindal International, cominceranno a trattare la stretta finale con il gruppo che ha avanzato l’offerta migliore. E siccome il nuovo incontro sulla cassa è il 28 febbraio, si suppone che a quella data la valutazione dei rilanci sia terminata e si sia al passaggio successivo. La seconda – ma non è una novità, semmai una conferma – è che il nodo occupazionale sarà uno dei più intricati da sciogliere. I commissari di Acciaierie lo sanno, il Governo lo sa (il ministro Adolfo Urso ieri ha fatto un riferimento esplicito), ed ecco perché almeno per ora, salvo diverse evoluzioni, l’offerta di Baku sembra essere quella meglio piazzata. Perché gli azeri, oltre a mettere sul piatto un miliardo di euro tra valore del magazzino e prezzo d’acquisto, fanno sì scendere l’asticella degli occupati del gruppo (da poco meno di 10.000 a 7.800), ma non precipitosamente come gli indiani, che avrebbero invece offerto 6.000 occupati.

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Ora se questo numero dei 7.800 venisse confermato o anche ritoccato (accadde nel 2018 per ArcelorMittal che passò da 10.000 a 10.700), è chiaro che gli esuberi ci sarebbero ugualmente ma non in quantità massiccia. Anche se bisogna vedere cosa accadrà dopo i due anni di vincolo per l’acquirente, perché è anche singolare che nessuno degli offerenti abbia garantito i posti di lavoro per più di due anni nonostante un periodo più lungo fosse soggetto a criteri premiali. No, entrambi i potenziali investitori si sono attenuti al minimo chiesto.

E comunque l’ostacolo più arduo da affrontare sembra essere quello delle garanzie che i sindacati chiedono a Governo e acquirente più che il numero degli assunti. La riunione al ministero del Lavoro ha infatti sciorinato, da parte sindacale, una serie di richieste che vanno dal recupero dei 1.700 di Ilva in amministrazione straordinaria (mai riassunti, nonostante l’accordo ministeriale del 2018 che prevede la loro riassunzione sia stato puntualmente evocato in tutte le intese successive) all’integrazione economica, portandola almeno al 70 per cento della retribuzione, della cassa integrazione per finire agli incentivi all’esodo. Difficile dire ora cosa potrà garantire il compratore. Si può tuttavia presumere che nel momento in cui l’ex Ilva passerà di mano, ci sono cose che potrebbe assicurare la società subentrante e cose, invece, di pertinenza del Governo. Esempio, l’integrazione economica della cassa potrebbe essere materia del nuovo privato, mentre gli incentivi all’esodo di competenza del pubblico, oppure di competenza mista sulla base di un accordo. Molto improbabile, invece, che chi vincerà la gara possa assorbire, e quindi far rientrare, i 1.700 di Ilva in amministrazione straordinaria per il fatto che con il passaggio dagli altiforni ai forni elettrici, l’occupazione diretta è destinata a scendere e non a salire. Oltretutto, il rientro di questi lavoratori di Ilva in as non è mai avvenuto in 6 anni di gestione Mittal e con una situazione aziendale e di mercato ben diversa, e quindi realisticamente non si vede come potrebbe avvenire oggi.

Certo, il sindacato fa il suo mestiere difendendo, come è giusto che sia, questi lavoratori e il vecchio accordo del 2018, ma la via d’uscita, a questo punto, non sta tanto nel chiedere al nuovo investitore di farsi carico dei diversi problemi, quanto nel mettere a frutto tutte le nuove opportunità: dall’hub per l’eolico offshore che verrà al piano del Just Transition Fund da 800 milioni che c’è già solo per fare due esempi. E nel mix di interventi che probabilmente sta la chiave risolutiva. Mix tra assunti diretti e investimenti nel siderurgico, nuovi progetti all’esterno, riconversione delle imprese, formazione dei lavoratori e sostegni sociali. Ed è magari proprio qui che serve una vera regia pubblica per guidare un processo complesso, ben più ampio, che non può limitarsi alla sola vendita di Acciaierie d’Italia.

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