FACT-CHECKING: I NUOVI CENSORI | La Fionda

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Il discorso di Monaco del vicepresidente Usa JD Vance è stato di una durezza quasi incredibile verso gli alleati europei, criticandoli aspramente anche per questioni di politica interna; particolare rilievo ha assunto il tema delle limitazioni della libertà di espressione che sono diventate moneta sonante per le classi dirigenti del Vecchio continente, nonché della precedente Amministrazione Biden.

Tale discorso va collegato al video, diffuso il 7 gennaio da Mark Zuckerberg – capo di Facebook e Instagram – a dir poco esplosivo, annunciando che si sbarazzerà (letterale: get rid of…) dei fact-checker per il controllo dei contenuti postati online (al momento solo negli Usa).

Per capire la carica polemica di Vance dobbiamo approfondire le forme di supervisione dei contenuti dei social e di come esse si siano radicate nel mondo del progressismo di establishment; quel mondo che la nuova dirigenza statunitense vede come un nemico ideologico. Con molte ragioni.

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Cosa ha detto Zuckerberg

L’uscita del padrone di Meta ha suscitato reazioni forti, in particolare dei diretti interessati, che non ne avevano assolutamente avuto alcuna avvisaglia, apprendendo assieme al resto del mondo del proprio licenziamento.

Nel video Zuckerberg ammette che negli anni dal 2016 si è intensificata la pressione da parte di media tradizionali e governi per controllare i contenuti online , ed il risultato è stato: sempre più censura ed errori. Cita anche le recenti elezioni statunitensi che avrebbero espresso una volontà di tornare a maggiore libertà online. I fact-checker avrebbero peccato di faziosità e distrutto più fiducia di quanto non ne abbiano creata. 

Ma adesso intende tornare alle radici della sua mission aziendale e virare verso il free speech: vestendo i panni del difensore della libera opinione, indica diversi paesi e soggetti in cui c’è una grande voglia di censura, (fra cui la Ue!) che non riuscivano a contrastare avendo il loro stesso governo che premeva in tal senso. Ma adesso che c’è Trump (!) al comando potranno collaborare per difendere la libertà di espressione delle persone.

E’ difficile immaginare una svolta più netta, tenendo conto di quanto Zuckerberg e Meta siano considerati alfieri del mainstream informativo a livello mondiale. Sono note le accuse di censura di contenuti critici dell’efficacia dei vaccini durante il Covid, ma più recentemente la piattaforma è stata accusata da Human Rights Watch di censurare le sofferenze dei palestinesi. Assunto ripetuto in un rapporto di fine 2024 del Centro Arabo per l’Avanzamento dei Social Media, che riporta una ventina di testimonianze di discriminazioni, con la cancellazione di post  e altre forme di limitazioni di account palestinesi, mentre viene dato libero corso all’odio online diffuso da 15 milioni di post su pagine in lingua ebraica.

Per valutare tali doppi standard (che paiono diventati un contrassegno dell’Occidente a guida Usa/Nato) e l’attuale piroetta di Zuckerberg partiamo dalla base: cos’è il fact-checking e quali sono le sue caratteristiche?

Vizi e virtù del fact-checking 

Con tale termine si designa la verifica della affidabilità di un testo. Evitare che la rete venga infestata da balle costruite a tavolino pare un obiettivo attraente e condivisibile ma può essere meno scontato di quanto si pensi. Alcune cose sono facili da smontare o capire se sono inventate; se c’è una citazione diretta è facile verificarla (“Giorgia Meloni ha veramente detto che sarebbe uscita dalla Ue?”). Per affermazioni più generali si dovrebbe capire se rispecchiano o meno la verità “oggettiva”; ma una visione condivisa può anche mancare fra esperti e specialisti o dipendere dalle coordinate ideologiche di ciascuno, per cui è difficile ridursi ai “fatti stessi”. Il che non significa che il fact-checking sia necessariamente arbitrario o distorsivo, ma che ha dei limiti; soprattutto che è inesorabilmente un punto di vista, talvolta utile e talvolta no. La pretesa di “attenersi ai fatti”, cara al giornalismo anglosassone, ha un qualcosa di rassicurante, nel promettere di respingere l’arbitrarietà e la mera opinione, ma ha più la consistenza di un’aspirazione ideale che un’acquisizione effettiva.

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Tuttavia impostare il problema sul piano conoscitivo è molto riduttivo. È abbastanza evidente che la sostanza del problema non è la veridicità in sé, ma i suoi effetti politico-elettorali. Infatti il tema “lotta alla disinformazione” balza all’ordine del giorno nel 2016 con la vittoria della Brexit e di Trump. Si è affermato infatti che le forme di “populismo digitale” minaccerebbero la democrazia, costruendo un consenso basato su fake news che solleticano i peggiori istinti della gente. La versione più istituzionale di tale corrente enfatizza la necessità di strumenti di verifica e controllo della comunicazione online da parte di competenze superiori. Sul fronte opposto si denuncia un mainstream oligarchico pronto a schiacciare il dissenso.

Nonostante ci si nasconda dietro la questione della “veridicità”, si può agevolmente ricondurre tali posizioni al rispettivo tornaconto politico: il mondo (grossomodo) progressista di establishment sarebbe così sollecito a stigmatizzare le bugie se esse favorissero le proprie posizioni? Probabilmente no. All’opposto, le destre saranno tanto devote alla libertà di espressione quando fossero un’arma dei loro avversari? La repressione del dissenso di piazza filo-palestinese posta in essere dal governo Meloni non pare promettere bene. 

Ovviamente chi sostiene forme di controllo “antibufala” sostiene di non portare avanti un interesse di parte, ma di indurre un dibattito pubblico più equo, corretto e basato su solidi acquisizioni, anziché su fantasie e emotività. Si cita per esempio – riguardo la Brexit – la raffica di episodi – esagerati, enfatizzati o inventati di sana pianta – su efferati crimini di immigrati e stranieri basati su razzismo e xenofobia.

Chi sostiene queste posizioni è però in seria difficoltà di fronte al fatto che forme di controllo di veridicità da parte terza (come i fact-checker amano accreditarsi) vengono sollecitate sostanzialmente solo per i social, mentre per i media dominanti (TV, giornali, radio) non compare questa preoccupazione. E questo nonostante siano proprio essi ad aver veicolato (riprendendo lo stesso tema) un’immagine sfavorevole, degradante o truce di stranieri immigrati – basterebbe in merito riprendere il famoso testo di Alessandro Dal Lago, Non persone. l’esclusione dei migranti in una società globale del 1999; e i social non esistevano.

Ancora più straziante è la terrificante complicità dei media globali nelle guerre occidentali. Basta rivedere il formidabile, duro film di John Pilger The War You Don’t See per ricordarsi quante vittime civili debbano la loro morte al conformismo di quello stesso giornalismo professionale che si pone su di un pulpito, accusando i social di nuocere alla democrazia. Il mondo progressista che ha riempito le piazze contro la guerra all’Iraq nel 2002-03 mentre i media ufficiali la legittimavano, oggi stranamente pare affidarsi a questi ultimi; e l’influsso pernicioso delle TV – soprattutto di Berlusconi – denunciato dal progressismo italiano per oltre venti anni (fino al limite di creare una mentalità sessista o simili) viene stranamente dimenticato. Il problema sono i social.

Sembra inevitabile concludere che la cosiddetta “lotta alla disinformazione” abbia una notevole componente di ipocrisia e falsità (davvero un paradosso). Spesso sono i suoi sostenitori a dirlo esplicitamente. Nella risoluzione del Parlamento europeo che chiede di agire contro l’annunzio di Meta dell’abbandono del fact-checking il punto è che “potrebbe consentire alla campagna di disinformazione della Russia di diffondersi ulteriormente in tutto il mondo”. 

Senza dubbio i social portano una disintermediazione nel campo dell’informazione che ovviamente pone il problema della qualità nel senso più classico (controllo delle fonti, sufficiente comprensione di esse evitando fraintendimenti, e simili). Ma come far fronte ad esso?

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Nuove forme di censura

Per combattere la disinformazione Meta ha adottato mezzi automatici e personale umano. Ha ricorso a controlli diretti da Intelligenza Artificiale per l’individuazione di contenuti critici attraverso parole-chiave, e a valutazioni fatte da persone in carne e ossa. Non è troppo chiaro quanto pesino questi due elementi, gli errori emersi da testimonianze dirette sono così grossolani da indicare automatismi senza intervento umano, come l’account chiuso per aver pubblicato una foto della scritta «Uccidi l’uomo bianco che è in te» e un post cancellato di un gruppo femminista che criticava il 41bis per il caso Cospito, come illustra una cernita raccolta da un gruppo di ricerca del Politecnico di Torino. Altri casi sono più ambigui, come il caso di un post che riportava la notizia dell’Ansa in merito a una ricerca sulle miocarditi dei bambini dopo il vaccino anticovid, è stato eliminato con l’avviso discutibile: «Il contenuto è stato controllato in un altro posto [?] da fact-checker indipendenti».

Quest’ultimo caso ci porta al cuore del problema, che è il motivo per cui si parla apertamente di censura e lo stesso Zuckerberg ha ripreso il termine. La modalità di fact-checking è stata usata da Meta per limitare l’accesso a molti testi se non cancellarli, o addirittura chiudere l’account. 

Non si tratta di casi isolati. Secondo il report della Commissione Ue relativo a soli sei mesi (prima metà del 2023) Meta ha cancellato 140.000 post Facebook solo nei paesi europei. Difficile evitare il termine censura. Facta news, una realtà che collabora con Meta per fare fact-checking, ha difeso il suo lavoro sostenendo che 

Il contenuto infatti rimane online: chi vuole può continuare a fruirne, mentre gli utenti che vogliono sapere perché è falso possono leggere l’articolo di fact-checking allegato. La stessa Meta specifica che «i fact-checker non rimuovono contenuti, account o Pagine da Facebook. Rimuoviamo i contenuti quando violano i nostri Community Standard, che sono separati dal nostro programma di fact-checking».

Ovviamente esiste anche questa modalità, ma la cancellazione resta, e pare difficile ritenere che il lavoro fosse così compartimentato che i verificatori umani non conoscessero l’attuazione delle loro valutazioni. Ma chi sono questi verificatori?

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I soldi dei nuovi censori

La figura di fact-checker è divenuta più professionale: sono entrati a lavorare per Meta alcune organizzazioni certificate da una istituzione chiamata  International Fact-Checking Network (IFCN). L’IFCN ha sede al Poynter Institute di St. Petersburg, in Florida, e per dare il suo riconoscimento richiede il rispetto di codici per evitare forme di parzialità come l’assenza di conflitti di interesse (come essere retribuiti da un partito politico) e aderire a standard rigorosi (non basarsi su opinioni o interpretazioni ecc). Il problema è che in bella vista sulla lista dei finanziatori compaiono, oltre a un sfilza di fondazioni (enti normalmente sostenute dalle più grandi aziende private) il Dipartimento di Stato e il National Endowment for Democracy oltre che alle vecchie conoscenze di Open Foundation, Meta e Google.

Si tratta dell’organizzazione che dopo lo shock dell’annuncio di Zuckerberg ha indetto in fretta e furia una assemblea con la comunità di fact-checker che lavorano per Meta. IFCN ha molti finanziatori, ma i fact-checkers professionali raramente hanno altre entrate che consentano loro di sopravvivere.

Il resoconto della riunione è chiaro: la gente è furiosa. Non solo per il rischio di perdere il lavoro (per chi lavora negli Usa la cosa è pressoché certa), ma per il fatto che Zuckerberg ha scaricato tutto su di loro.

In Europa esiste un’altra organizzazione-ombrello per questa professione, si chiama European Fact-Checking Standard Network. Ha legami con la Commissione e il direttore si chiama Clara Jimenez Cruz: era stata nominata dall’esecutivo Ue nell’ High Level Group against Disinformation, un gruppo di lavoro preposto alla lotta contro la disinformazione con il compito di redigere un rapporto sul fenomeno, assieme a altri 38 “esperti”, fra cui Gianni Riotta. 

La sua creazione è avvenuta totalmente grazie alla Commissione, ulteriori finanziamenti derivano da vari tipi di progetti (l’ultimo dei quali finanziato dalla Commissione, il penultimo da Google News).

Al di sotto di enti certificatori, coloro che hanno lavorato concretamente per Meta sono, in Italia: Open, Pagellapolitica e Facta. Queste ultime sono due testate che fanno parte della stessa società, TFCF S.R.L, nuovo nome assunto nel 2020 di Pagella Politica Srls (fondata nel 2013). È opportuno concentrare l’attenzione su di esse, perché come Facta stessa rende noto in un suo articolo molto preciso, sono loro ad aver aderito al programma di Meta del 2016; Pagella Politica si unisce nel 2018, dal 2020 Facta prende la leadership della collaborazione mentre la testata di Mentana si aggiunge solo a fine 2021.

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Prendiamo Facta. Da chi è finanziato? Sul loro sito vengono elencati:

Sostanzialmente è la Ue a pagare, oltre le piattaforme – e chissà se Meta continuerà a farlo.

Il direttore di Facta è Giovanni Zagni (già membro della governativa “task force contro le fake news” anche se precisa di essersi dimesso già nel 2020). In un suo argomentato e interessante articolo, illustra il funzionamento del programma di Meta per il fact-checking, citando la sezione della piattaforma che esclude una base di opinioni personali per la verifica; “Insomma, opinioni e idee sono escluse.” Ma è proprio vero? 

Neutralità e politica

Ci risiamo: si butta il tema sul terreno della veridicità per sottrarlo alla politica e all’opinione. Ma non è facile capire questa dimensione dai testi stessi.

Il motivo per cui non appare – e la chiave per farlo “riapparire” – è questo: va distinto il “peso assoluto” della veridicità di un testo e il “peso relativo”.

Il primo è la corrispondenza ad una sorta di descrizione esatta (o più fondata possibile) della realtà. Ovviamente in rete c’è tantissimo materiale costruito con fonti dubbie, assolutamente false e mistificanti. Ma fra questo e gli articoli scientifici c’è una enorme gamma intermedia che spesso semplifica alcuni passaggi per esigenze di divulgazione, mancanza di spazio, ecc. È facile trovare qualche punto debole alla luce di un criterio così esigente di veridicità astratta. Ma nel dibattito pubblico con un contesto di opinioni concorrenti si deve usare un principio meno esigente. Chi manifestava contro la guerra all’Iraq considerandola un conflitto basato sulle menzogne aveva maggior verità dei commentatori che la difendevano, anche se gli appelli pacifisti non raggiungevano altri standard di raffinatezza concettuale. È la verità “relativa” a contare.

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In sintesi: la scelta arbitraria di fare fact-checking a qualcuno e all’altro no, porta a dar ragione a chi vuoi tu. Se non si confronta il “peso specifico” di veridicità delle varie parti in causa in un contesto, un criterio astratto di “verità assoluta” usato come mazza su una parte sola restituisce una prospettiva generale distorta.

Anche la costruzione di un criterio veritativo “oggettivo” presenta molti problemi. Che fonti interpelliamo? In argomenti di spessore tecnico o scientifico si fa ricorso a qualche fonte o esperto dotato di una accreditata competenza. Ma perché proprio lui e non un altro? È chiaro che la propensione personale, il proprio percorso e visione si attivano in tale scelta. Per nozioni di base ci saranno assunti abbastanza condivisi, specialmente per grandezze quantitativamente misurabili (“quanto è grande una molecola”? “quanto era l’inflazione nel 1975”?), ma in altri casi ci sono nozioni controverse (“ è vero che gli Usa sono un paese imperialista?” “Ha detto la verità Putin annunziando i motivi della guerra?”) e la scelta della fonte è essa stessa un punto di vista. Non intendiamo suggerire che si possa dire tutto e il contrario di tutto, ma che possono esistere punti di vista alternativi, egualmente solidi sul piano delle competenze e dello strumentario tecnico. Tutti tendiamo a prediligere le fonti a noi sintoniche sul piano dei valori e dell’analisi generale, ma come gestiamo quelle a noi lontane? Un modo è quello di chiudersi nella propria bolla, delegittimando ciò che stride con essa. Un altro è imporre un punto di vista di riconosciuta validità vendendolo come l’unico valido. Se poi la motivazione sono gli interessi materiali (“scelgo analisi vicini alla NATO perché la loro analisi implicitamente avalla le politiche occidentali”) persino di carattere personale (“io stesso lavoro per la NATO”) ci siamo giocati ogni pretesa di neutralità.

Questo lo si vede bene riguardo la guerra in Ucraina. Esistono per esempio molte notizie fasulle sia sul presidente ucraino Zelensky che su quello russo Putin; in fondo in una guerra è normale che si combatta anche sul piano della propaganda. Facta smentisce molte di esse riguardanti il primo, mentre in merito al secondo pubblica due articoli che demistificano le citazioni infondate che restituirebbero un’immagine positiva di Putin. Delle numerosissime notizie, talvolta piuttosto balzane, sulla salute del capo del Cremlino, per esempio, non pare esservi traccia di smentite. Eppure hanno trovato spazio su numerose testate nazionali. Qui una breve antologia di questa letteratura fantasy:

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In diversi articoli Facta parla apertamente di disinformazione russa, cioè di atti messi in atto dalla stessa Federazione per destabilizzare concorrenti, diffamare nemici, e simili. Curiosamente non si vede un solo caso analogo attribuibile alla Nato, agli Usa o all’Ucraina. Anche nello stesso linguaggio c’è qualcosa del genere. Si usa l’espressione “disinformazione filorussa” e “narrazione del Cremlino”. Invece non si dice mai “narrazione della Casa Bianca” o “narrazione di Biden”. Una delle due parti ha una narrazione l’altra no, stranamente.

Prendiamo un altro caso in cui la disinformazione appare tesa a screditare Mosca: un video virale in cui si vede un presunto militare russo che irrompe in un seggio controllando i voti nel corso delle elezioni di marzo 2024. Il fact-checking inizia elencando pedissequamente diversi soggetti che denunciano brogli nelle elezioni (tra questi soggetti ci sono anche Stati che inviano armi all’Ucraina, ma tale “dettaglio” è omesso). In seguito vengono elencati diversi elementi incongruenti, ma attribuendoli a “utenti che hanno pubblicato contenuti filo-russi”. Tale specificazione che in qualche misura rende meno credibili tali argomenti viene fatta, guarda caso, per un video che mira a dipingere la Russia come una dittatura, mentre in tanti altri casi opposti vengono citate come fonti soggetti profondamente filoucraini o riconducibili a Stati ostili a Mosca, senza specificare tale inclinazione. 

Avere un punto di vista è normale, e non significa che in base ad esso non si possa dire qualcosa di valido. Per alcuni versi è inevitabile. Non è sorprendente che un sito di verifica di informazioni certificato da enti finanziato dagli Usa e dall’Ue, che riceve significativi fondi dalla Ue, il cui direttore è transitato (presumibilmente a titolo oneroso) per un progetto Ue (SOMA- Eu Grant Horizon 2020, cfr. qui) abbia una posizione fondamentalmente occidentalista, europeista, filo-statunitense, e sia portato a trasporla nelle proprie analisi. Tale retroterra caratterizza l’intera comunità di fact-checker, sia per il percorso specifico dei singoli, in gran parte transitati da progetti Ue o da articolazioni Usa/Nato, che per la caratura politica di chi li finanzia.

Appare quasi un’ovvietà che la pretesa un po’ infingarda di rivestirsi di un’aura di neutralità e imparzialità molto discutibile come base per cancellare o marginalizzare forzosamente dei contenuti si configuri come una forma soft di censura politica. 

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Ma in generale l’incisività qual è stata? Il fact-checking prometteva di creare un ambiente comunicativo più onesto, trasparente, corretto e veridico, per “inserire una dose di oggettività nella dialettica politica italiana”, come si esprime Pagellapolitica. 

Il mondo online invece pare più sfiduciato che mai, e il controllo basato sul  fact-checking ha spinto nella direzione opposta. La pretesa di veridicità universale, essendo avanzata da realtà molto politicamente indirizzate, alla fine viene pacificamente accettata solo da chi ne condivide il perimetro valoriale. Chi ne è fuori guarda in cagnesco la torre d’avorio della verità liberal-progressista, chiudendosi nella sua bolla e tagliando i ponti con essa ancor di più, meditando rivincita. Come dice Zuckerberg, si è distrutta più fiducia di quanto non se ne sia creata.

La rivincita è ora. Il trionfo del trumpismo negli Usa è l’occasione per rovesciare tale egemonia. Trump ha subito personalmente l’esclusione dai social, l’ha sicuramente vissuta come un sopruso fazioso ad opera dei suoi nemici, e la sua base la pensa come lui. Non è uomo da fare prigionieri (metaforicamente) e la velocità dell’attacco a UsAid sembra ispirata dal Principe di Machiavelli quando suggerisce di dare tutti i colpi insieme per fiaccare la capacità di difesa. 

Non sappiamo quanto tale contro-reazione avrà un seguito elettorale in Europa, in ogni caso la polarizzazione politica diventa sempre più estrema, e se il logoramento di quella cappa di controllo va salutato con favore, bisogna capire con cosa verrà sostituito.



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