Sanremo, che bello: sono solo canzonette!

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Sanremo, giorno 3.

L’incipit della terza serata del Festival della canzone italiana non poteva iniziare meglio: con Edoardo Bennato. Un gigante operaio della musica italiana che ha dato il la alla puntata con la sua eterna Sono solo canzonette. Uno che meglio di altri ci ha spiegato il senso di questo baraccone: perché ci sono le canzonette che cambiano il mondo, ma anche le canzonette-canzonette, quelle che non vogliono dire proprio nulla e che vogliono trasmetterci solo un momento di pura, vana e leziosa amenità. “Io di risposte no ne ho, io faccio solo rock’n’ roll“, dice Bennato: non sempre bisogna portare verità o denunciare, “ma che politica, che cultura!”. Che poi, forse, la canzone più politica, oggi, è quella che politica non fa. Keep calm, insomma, che il Festival di Sanremo non deve essere il Congresso di Vienna: può essere tranquillamente cazzeggio in quella sublime suburra di bello e di paccottiglia. E sia.

Ogni febbraio, puntuale come un rito, il Festival ripropone il solito dibattito: c’è chi lo esalta come l’ultimo vero evento collettivo italiano e chi lo liquida con fastidio, come un carrozzone obsoleto per nostalgici e gente senza gusto musicale. Ma sotto il fuoco delle critiche speziate di spocchia, si nasconde una verità più semplice e scomoda: il nazionalpopolare non è un nemico da combattere, ma un valore da comprendere e, perché no, anche da difendere. Sollazzo del popolino? E va bene così.

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Parla a tutti, senza chiedere permesso. È un fenomeno che non si vergogna della sua vocazione ampia, che accoglie l’arte e il trash, l’alto e il basso. Unisce, fa parlare tutti, anche quelli che non ne vogliono parlare: e ciò di cui tutti parlano, alla lunga dà fastidio. Ma davvero il diritto a divertirsi senza secondi fini, senza il bisogno di “elevarsi”, è qualcosa di cui vergognarsi? Rivendicare la libertà di non pensare per qualche ora, di sospendere il cinismo, di commentare questa canterina partita di pallone senza sentirsi in colpa, mentre là fuori è tutto fuoco e fiamme è un reato? In un mondo che ci chiede costantemente di essere proattivi, smart, critici e consapevoli, il nazionalpopolare è un eterno presente, senza dover dimostrare nulla.

Anzi, il Festival di Sanremo diventa tanto più fastidioso quanto più cerca di elevarsi risultando grottesco. Il messaggio socialmente utile raffazzonato tra un cambio d’abito e l’altro; il monologo sfinente all’1.00 di notte (quest’anno siamo stati graziati); la co-conduttrice in carne che deve sempre sottolineare i chili di troppo quasi a scusarsi, costretta a continui momenti “facce ride” che perfino i Duran Duran si sono straniti un po’; bimbini spaesati e intimoriti, messi qui e lì per qualche frazione di secondo a ricordarci cosa? Che sono meglio di noi adulti? Lo sapevamo già. Nemmeno Sanremo si rilassa su sè stesso.

Che poi a dirla tutta, volendo proprio giocare altissimo, potremmo ripescare la concezione estetica di Antonio Gramsci (signora mia, non c’è più religione…). Sì, Gramsci non ha mai usato il termine “nazionalpopolare” e forse inorridirebbe di fronte ad Elettra Lamborghini che twerka, ma forse – e dico forse – avrebbe difeso a oltranza quel “di tutto il popolo” pur detestando Sanremo. Era il 6 gennaio 1987, serata conclusiva di Fantastico, quando in diretta televisiva, San Pippo Baudo rispose con tono piccato al presidente della Rai Enrico Manca:Considero questa definizione un’offesa. Il presidente Manca rilascia spesso interviste, forse anche troppe. D’ora in poi farò programmi regionali e impopolari“.

La polemica nacque da un’intervista rilasciata da Manca al Corriere della Sera, in cui definì i programmi del celebre conduttore “nazionalpopolari”. Un termine che, nelle intenzioni del presidente Rai, non era certo un complimento. Eppure, quella definizione segnerà la storia della televisione italiana. Manca, figura di spicco della politica e dell’informazione, socialista, deputato, giornalista, durante il suo mandato in Rai applicò al piccolo schermo il concetto gramsciano, attribuendo alla TV generalista l’etichetta di di cui sopra. Un concetto che si torse, dalle intenzioni del buon Gramsci alla visione baudiana della tv italiana. Un episodio che segnò uno spartiacque: poco dopo lo scontro con Manca, Baudo decise di lasciare la Rai per approdare a Canale 5. Un passaggio che rifletteva la crescente competizione tra il servizio pubblico e la televisione privata, una sfida che avrebbe cambiato per sempre il panorama mediatico italiano.

Scomodando nuovamente Gramsci, a suo dire uno dei temi cruciali della questione ideologica del nostro Paese stava nella grande distanza esistente tra i ceti intellettuali e il popolo, e nella impossibilità e incapacità degli intellettuali di rappresentare gli interessi e i gusti della “gente”. Sono passati quasi quarant’anni dalla polemica baudiana e al di là dei talent, della dittatura delle major discografiche, di quell’autotune che ti verrebbe voglia di dargli fuoco, l’Italia resta Massimo Ranieri e Tony Effe, Iva Zanicchi e Lucio Corsi, Fedez e Giorgia. Occorre farsene una ragione. Ammetterlo costa fatica. Ma domani sarà già tutto finito.

Ps. Caro Carlo Conti, ci avevi promesso di non fare le ore piccole, ma qui c’abbiamo un’età: dopo le 23.00 iniziamo a decomporci come surgelati al sole.

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