«Stupefacente è la vita, non la droga»: la lezione del prete anti-spaccio / Chiesa / Home

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di CECILIA TOMIZZOLI

Le sue parole forti, gridate anche a suon di megafono nelle piazze delle borgate più difficili di Roma, risuonano in tutta la penisola e hanno raggiunto anche la nostra provincia: ed è così che don Antonio Coluccia, invitato il mese scorso dal Comune di Pescantina e da don Renzo Zocca (presidente della Fondazione L’Ancora), a cui lo legano un’amicizia fraterna e un’esperienza comune nelle periferie cittadine, ha incontrato la popolazione, le autorità pubbliche e gli studenti per parlare di sostanze stupefacenti e criminalità organizzata.

Impegnato da decenni nella lotta contro il narcotraffico, il sacerdote di origine salentina – chiamato “prete coraggio” da chi lo stima e “prete infame” da chi invece vorrebbe farlo tacere – non si lascia intimorire dalle continue minacce di morte che lo costringono da anni a vivere sotto scorta: il suo obiettivo, come recitava il titolo della serata che lo ha visto protagonista, è offrire un’opportunità ai ragazzi in difficoltà e aiutarli a comprendere che “stupefacente è la vita, non le sostanze”.

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– In nome di chi affronta quelle che lei chiama le “piazze dello spaccio” nei quartieri romani di Quarticciolo, S. Basilio, Tor Bella Monaca, Laurentino 38, le cui problematiche richiamano l’attenzione mediatica?

«Le piazze dello spaccio, prive di notte addirittura dell’illuminazione, sono il fulcro del narcotraffico, di cui sono complici il degrado e la sporcizia. A questo si aggiunge il racket delle case popolari occupate, gestito da clan mafiosi, che garantiscono i servizi che lo Stato non dà e gestiscono a tutti gli effetti un welfare criminale. In queste piazze, dove vi sono crocifissi e crocifissori, nel buio si muovono vigliacchi venditori di morte che si nascondono e ingaggiano giovane manovalanza, allettata dai soldi facili e disposta a morire per molto poco: rendono dapprima questi ragazzi assuntori di droga, poi li privano del diritto di scegliere e di fatto ne fanno dei nuovi schiavi. In nome del Vangelo, “spaccio” Gesù Cristo, non per fare proselitismo, ma per spiegare ai giovani che la vita è il dono più grande e la droga è un bluff, che regala emozioni di pochi istanti, ma non rende felici. L’altro mio punto di riferimento è la Costituzione, che è un Vangelo laico: non nasciamo battezzati, ma come cittadini: la registrazione all’anagrafe è la prima adesione ad un impegno a servizio della cosa pubblica, il primo passo verso la partecipazione sociale di ciascuno. Il secondo è il Battesimo che impegna i credenti, pur non essendo del mondo, a vivere nel mondo».

– La droga è parimenti diffusa in tutto il Paese? E che dire, anche alla luce dei recenti fatti di cronaca, della situazione a Verona?

«Come affermava il magistrato Rocco Chinnici, droga e mafia sono un binomio inscindibile in qualsiasi realtà. I ragazzi sono uguali dappertutto: hanno gli stessi sogni, provano le stesse emozioni e paure, vivono lo stesso disagio. Ma anche la droga è “democratica”: è un male nazionale, un demone che arriva ovunque, non ci sono limiti né età anagrafiche, sebbene il primo approccio con la droga avvenga attorno ai 12 anni. Le dinamiche delle dipendenze, dalla droga all’alcol fino alla ludopatia, non sono affatto facili e vanno sostenute: per questo dobbiamo investire nella prevenzione piuttosto che nella cura. Anche la storia di Verona è purtroppo segnata dalla droga; negli anni Settanta la città era definita la “Bangkok d’Italia”, ma tuttora ne è crocevia: il narcotraffico si insinua nelle aree più tranquille, dove non desta sospetti e la società è sana. Le droghe sono un problema serio e creano stati d’ansia, cambi di umore, riducono parte della corteccia cerebrale: smettiamola di pensare che uno spinello sia una stupidaggine; fidiamoci piuttosto di quanto dichiarano coloro che hanno competenza in materia».

– Nel far fronte al disagio giovanile, qual è il ruolo della famiglia?

«I genitori devono mettersi in ascolto dei figli, star loro accanto senza giudicarli o vergognarsi della loro fragilità: i giovani non sono mai stati un problema, bensì una grande risorsa, da “maneggiare” però con cura. Bisogna che le famiglie non nascondano le difficoltà, ma le affrontino senza farne un dramma. Devono intercettare il malessere dei figli, quando ad esempio si chiudono in stanza e si isolano. Sembra un paradosso, ma nell’epoca dei social media cresce la solitudine: i follower non sono amici e il mondo del web fornisce subito soluzioni ai ragazzi, ma non risponde alle loro domande più profonde e alla loro ricerca di senso».

– Le istituzioni, la scuola e la Chiesa cosa debbono fare?

«Tutti i cittadini di buona volontà, credenti e non, e ogni confessione religiosa ha il dovere di indignarsi, di non chiudere occhi né orecchi; le istituzioni devono salvaguardare i territori che ci sono stati dati in dono, lavorare in sinergia, dare vita a presidi di legalità affinché le periferie, non solo della Capitale, siano l’inizio della città, non la fine. L’intera comunità civile non deve solo commuoversi, ma muoversi: la paura paralizza e genera assuefazione, mentre è necessario rischiare, osare, compromettersi. L’omertà è un tumore sociale e non è un’attitudine cristiana: quindi la Chiesa non può rimanere insensibile e deve schierarsi dalla parte di questi nuovi “crocifissi” che dobbiamo schiodare dalla croce; anche le stesse parrocchie rivestono un ruolo fondamentale come agenzie educative sul territorio. Del resto, non esiste un Vangelo senza rischio e non esiste un rischio senza Vangelo. In questo ambito, infine, devo riconoscere che la scuola sta facendo molto, sopperendo spesso anche a compiti delle famiglie e a oneri dei servizi sociali».

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– Sconfiggere la droga è per alcuni una mission impossible: che ne pensa?

«La droga ruba la speranza, ma è una sfida che si può affrontare e vincere, dando alternative e seguendo, come amo ripetere, la regola delle “3 P”: pochi piccoli passi. E in questo Anno Santo spetta a noi battezzati, pellegrini di speranza, annunciare il messaggio di amore e liberazione da ogni schiavitù trasmesso da Gesù: la Porta Santa possiamo diventare noi».



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