Foggia, rubò carta di credito al collega in carcere e comprò fiori per la madre e la fidanzata

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E’ stato ritenuto inammissibile il ricorso di un agente penitenziario 37enne napoletano accusato di aver derubato una carta di credito di un collega conservata nell’armadietto personale, all’interno della casa circondariale di Foggia. L’aveva utilizzata indebitamente, per acquistare due mazzi di fiori, rispettivamente del valore di 107 e 168 euro, che aveva inviato alla madre e alla fidanzata. Successivamente, era tornato in carcere e aveva rimesso il maltolto al suo posto.

I reati sono stati consumati il 9 agosto 2014. Il 19 aprile 2024 la Corte d’Appello di Bologna ha confermato la sentenza del tribunale di Piacenza.

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Il ricorso dell’imputato

L’imputato, attraverso il suo legale difensore, ha fatto ricorso alla Suprema Corte di Cassazione per tre motivi: con il primo ha dedotto la violazione di legge ed il difetto di motivazione per la mancata derubricazione della condotta contestata ai sensi degli artt. 624, 625 n. 7 e 61 n. 11 codice penale nell’ipotesi gradata del furto d’uso punita ai sensi dell’art. 626 n. 1 codice penale.

Nella condotta consumata dall’agente, secondo l’avvocato difensore, ricorrevano infatti tutti gli elementi dell’ipotesi gradata, posto che l’imputato aveva sottratto la carta di credito con l’intento di restituirla non appena ne avesse fatto uso. A fronte di un suo utilizzo per la somma complessiva di euro 275, il ricorrente aveva rifuso al collega un importo di gran lunga inferiore di 4600 euro.

Con il secondo motivo lamenta la violazione di legge ed il difetto di motivazione in relazione alla mancata declaratoria di prescrizione del reato contestato ai sensi dell’art. 55, comma 9, d.lgs. n. 231/2007, intervenuta in data anteriore alla pronuncia della sentenza impugnata.

Con il terzo motivo denuncia la violazione di legge ed in particolare dell’art. 84 codice penale, per il mancato assorbimento del reato di uso indebito della carta di credito in quello relativo al furto della stessa, che già conteneva tutti gli elementi essenziali del reato indicato.

Perchè il ricorso è inammissibile

Il Procuratore generale della Repubblica presso la Suprema Corte di Cassazione, nella persona del sostituto Ferdinando Lignola, ha inviato una memoria in cui ha concluso per il rigetto del ricorso, ritenuto inammissibile. L’agente è stato condannato al pagamento delle spese processuali di 3mila euro.

Preliminarmente, la Corte di Cassazione ha ribadito il mancato riconoscimento del legittimo impedimento del difensore (ordinanza pronunciata in giudizio), non smentita dall’invio di un certificato, giunto dopo la chiusura dell’udienza, dal cui contenuto si evincerebbe la smentita dell’improvviso sorgere delle ragioni dell’impedimento posto che il familiare risultava essere stato ricoverato giorni prima.

Il primo motivo, speso sull’invocata diversa qualificazione della condotta nell’ipotesi del furto d’uso – ovvero se il colpevole ha agito al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa sottratta, e questa, dopo l’uso momentaneo, è stata immediatamente restituita – è manifestamente infondato.

L’ipotesi del furto d’uso si configura solo quando si faccia un uso ordinario, e del tutto transitorio, del bene sottratto, senza intaccarne il valore, e si provveda poi alla sua spontanea restituzione. L’uso momentaneo che caratterizza la fattispecie del furto d’uso, deve essere conforme alla natura e alla destinazione della cosa sottratta.

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Per la configurabilità del furto d’uso occorrono due elementi essenziali: il primo è caratterizzato dal fine esclusivo di fare uso momentaneo della cosa sottratta, l’altro ha carattere oggettivo e concerne la restituzione che, dopo l’uso, deve essere effettuata. Tale restituzione deve essere volontaria, e ciò deve presentarsi come libera attuazione dell’iniziale intenzione di restituire.

Pertanto, le cause che determinano una coazione alla restituzione, rendono applicabile il titolo comune di furto. Come anche, tutte le cause indipendenti dalla volontà del colpevole, che impediscono la restituzione.

Il furto d’uso presuppone una restituzione spontanea della refurtiva dopo l’uso momentaneo, con la conseguenza che tutte le cause, anche quelle indipendenti dalla volontà del colpevole, che determinano una coazione o impediscono la restituzione, rendono applicabile il titolo comune di furto.

Alla luce di tali considerazioni risulta pertanto evidente come il furto di un bene per essere considerato un mero furto d’uso non può comportare una diminuzione del valore economico che il bene sottratto esso stesso costituisce o, come per le carte di credito (o le carte di prelievo, i bancomat), rappresenta (per la sua funzione di accesso al credito bancario o finanziario sottostante).

Così che, nel caso di specie, l’utilizzo del bene sottratto, la carta di credito, in due diverse occasioni, prima della sua restituzione, non consente di concludere che se ne fosse fatto un mero uso, privo di pregiudizi economici per la persona offesa, in ordine, in questo caso, al credito a cui la carta si riferisce, che aveva subito una diminuzione pari alle somme spese.

Il secondo motivo, sulla prescrizione del delitto di uso indebito della carta di credito, è manifestamente infondato, posto che nessuno dei motivi di appello (che era stato argomentato solo sulla contestazione della corretta qualificazione del furto della carta), era riferibile al capo B della rubrica (l’utilizzo, appunto, della carta), né era stata avanzata censura alcuna al complessivo (e quindi riguardante anche tale imputazione) trattamento sanzionatorio.

Il terzo motivo, è inammissibile, perché non proposto con i motivi di appello. E’ anche manifestamente infondato, oltre che contraddittorio rispetto alla invocata derubricazione del capo A in furto d’uso, essendo pacificamente distinte le condotte di sottrazione della carta di credito, reato istantaneo consumato al momento dello spossessamento, e quello di uso indebito della stessa, reato parimenti istantaneo, consumato nelle due distinte occasioni successive al furto del mezzo di pagamento.

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