Tutta l’architettura ideologica su cui si sono costruite le istituzioni multilaterali, a partire dal sistema Onu, è sotto attacco. La Seconda guerra mondiale aveva aperto un baratro di distruzione mai visto prima. O almeno bisognava tornare ai tempi dei Gengis Khan e dintorni per aver visto devastazioni e massacri così rovinosi.
Da quello scenario, culminato con le bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki, il mondo occidentale, Stati Uniti in testa, avevano convenuto su un “mai più”. Soprattutto gli incendiari di quel tornado di fuoco, i tedeschi, furono quelli che con più convinzione adottarono questo imperativo categorico: mai più avrebbero usato le armi contro qualcuno e invaso un territorio altrui. Anche i nostri costituenti inserirono questa visione nella Costituzione laddove si proclama il ripudio delle armi per risolvere le contese internazionali. Il nuovo edificio dell’Onu con tutte le sue agenzie, e le convenzioni di Ginevra sui crimini di guerra emergono nell’immediato dopoguerra dalla convinzione di dover metter freno ai nazionalismi e alle conseguenti pulsioni belliciste. Lo stesso intendimento che espressero Ernesto Rossi e Altiero Spinelli quando redassero il Manifesto di Ventotene, carta della futura Unione europea.
Nonostante la guerra fredda incombente il sistema degli stati trovò il modo di comporre le divisioni e diede vita a delle camere di compensazione e dei luoghi istituzionali dove confrontarsi e stemperare le tensioni. Nazioni minori come Norvegia, Canada e Svezia interpretarono al meglio questa missione e furono al centro del processo di formazione e consolidamento dell’Onu, con il norvegese Trygve Lie, primo segretario generale, seguito da Dag Hammarskjold, una delle figure chiave dei primi anni (morto in missione, in un incedente areo mai chiarito), e i canadesi John Peter Humphrey, estensore della Dichiarazione universale dei diritti umani e Lester Pearson, promotore dei Caschi blu nel 1952.
Allora c’era spazio e rispetto per voci diverse che non si schieravano al servizio di una delle superpotenze, anche se stavano saldamente da una parte. Ora l’iperpotenza americana viaggia a tutta velocità nel progetto di auto-affermazione assoluta e solitaria nell’arena internazionale e disdegna ogni interlocutore, salvo il servizievole Netanyahu. Intende dettare nuove regole a proprio esclusivo vantaggio, stracciando e calpestando quanto è stato fatto in questi decenni post-bellici.
La furia di Trump non si ferma nemmeno di fronte alle regole di base della convivenza internazionale, al punto di rivendicare come propri i territori di altri stati: come un Putin qualsiasi, e senza nemmeno uno straccio di storia a fare da paravento. Di fronte a quella che Fulbright chiamò “l’arroganza del potere”, le democrazie europee devono rispondere con una voce sola per riaffermare i principi dei diritti umani, del rispetto dei popoli e delle nazioni, e della convivenza pacifica.
L’Italia da che parte sta? Gli amorosi sensi variamente espressi tra Giorgia Meloni e l’amministrazione trumpiana (ricordiamo che Meloni e Salvini affiancarono Trump nella sua campagna sui brogli elettorali del 2020) stanno portando l’Italia su un terreno inedito di conflittualità con le istituzioni internazionali. Lo scontro acceso ora sulla Corte penale internazionale per il nostro rifiuto ad arrestare e trasferire all’Aia il criminale libico Almasri anticipa le prossime mosse del governo.
Se questa è la direzione di marcia che vuole intraprendere il governo allora vuol dire che inizierà un’opera di freno se non di vero e proprio boicottaggio anche sui tavoli europei. Mattarella non si stanca di richiamare la tradizione multilaterale e pro-europea dell’Italia. Ma non è detto che venga ascoltato. L’idem sentire con l’America può portare il governo a mettersi sulla scia trumpiana e, per iniziare, denunciare l’attività dell’Oms in sintonia con i sentimenti no-vax della destra salviniana e meloniana. E poi, non eseguire il mandato d’arresto della Cpi nemmeno per il premier israeliano Netanyahu, come già dichiarato dal ministro degli Esteri, Antonio Tajani.
In tutto questo lascia interdetti che le parole più sagge e calmieranti vengano da un regime autoritario come la Cina. Sembra un mondo all’incontrario. Ma noi europei dobbiamo farcene una ragione. Se Trump non viene imbrigliato dalle forze responsabili l’Atlantico diventerà immensamente largo per noi.
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