Gli ambientalisti italiani uniti chiedono una scossa sulle concessioni idroelettriche

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Anche nell’ultimo anno l’Italia ha visto spiccare l’energia idroelettrica come la prima fonte rinnovabile del Paese, in grado di produrre oltre 52mila GWh di elettricità senza emissioni di CO2 – quasi quanto tutti gli impianti eolici e fotovoltaici messi insieme –, un dato in forte crescita (+30,4%) rispetto al 2023 ma solo grazie alla maggiore piovosità. Perché gli investimenti nel settore sono pressoché fermi, a causa dell’imbarazzante impasse sulle concessioni idroelettriche.

È infatti utile ricordare che sono stati introdotti obblighi normativi di apertura del mercato a nuovi operatori (ovvero mettendo a gara le concessioni), peraltro previsti – vale la pena ricordarlo – solo per il nostro Paese nel Vecchio continente, secondo quanto condiviso nel 2021 dall’Italia con la Commissione europea tra le riforme previste dal Pnrr.

Nodi che stanno venendo al pettine. Oltre il 70% degli impianti idroelettrici in Italia ha più di 40 anni e l’86% delle concessioni di grandi derivazioni idroelettriche è già scaduto o scadrà entro il 2029: diventa quindi prioritario affrontare le criticità dell’attuale quadro normativo italiano e sbloccare gli investimenti.

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Per questo oggi le tre principali associazioni ambientaliste nazionali – Legambiente, Wwf e Greenpeace – intervengono con una voce sola: «Affrontare con urgenza il tema delle concessioni idroelettriche è prioritario per la salvaguardia del sistema elettrico rinnovabile, ma ancora più importante è avviare politiche e procedure per ripristinare lo stato ecologico degli ecosistemi fluviali interessati».

Due temi che si toccano. L’idroelettrico svolge, infatti, un ruolo essenziale non solo in termini di sicurezza della rete, ma anche in termini di stabilità e programmabilità e, insieme ai pompaggi, può rappresentare un asset importante per arrivare all’obiettivo 100% di produzione di elettricità da queste fonti entro il 2035; al tempo stesso i bacini idroelettrici possono svolgere un ruolo importante anche in termini di approvvigionamento idrico, alla luce delle sempre più frequenti emergenze connesse alla crisi climatica. Ma nessuna attività umana – men che meno industriale – è a impatto ambientale “zero”, neanche la produzione di energia rinnovabile. Per questo è indispensabile che le concessioni siano coerenti anche coi bilanci idrici, che dovrebbero essere stati redatti nell’ambito dei Piani di gestione di distretto idrografico.

«La realizzazione e la gestione di questi impianti possono comportare costi ambientali non trascurabili, a volte decisamente pesanti – dichiarano le associazioni –, da minimizzare per assicurare la salute degli ecosistemi fluviali. Sono noti i problemi dei corsi d’acqua caratterizzati dalla presenza degli impianti, con derivazioni e canalizzazioni che non garantiscono la vivibilità naturale dei fiumi. Anche la manutenzione di queste infrastrutture, soprattutto dighe e invasi finalizzati ai pompaggi, richiederebbe un aggiornamento della normativa esistente per facilitare gli operatori a sostenere i costi dello smaltimento dei sedimenti che riempiono sempre più gli invasi, e che oggi sono costretti a smaltire in discarica», quando invece potrebbero essere utilmente impiegati come terreni fertili in agricoltura, se non ci fossero ostacoli normativi a impedirlo trattandoli come rifiuti speciali.

Basti osservare che ad oggi le 532 grandi dighe italiane possono accogliere fino a 13,8 miliardi di metri cubi d’acqua, ai quali si aggiungono 800 mln di mc d’acqua suddivisi in 26.288 piccoli invasi, ma mediamente il 33% (4,3 mld di mc) del loro volume si riduce a causa dei detriti che si accumulano nel fondale (interrimento) con punte fino al 48% nei territori del fiume Po.

Che fare? Le tre associazioni ambientaliste lanciano un appello a Governo, Regioni e imprese chiedendo che «l’affidamento degli impianti avvenga anche in Italia, secondo le regole vigenti a livello europeo e sia vincolato, anche in caso di proroghe, a precise garanzie in termini di riqualificazione, efficientamento impiantistico, ma soprattutto di ripristino degli ecosistemi fluviali. Il tutto assicurando un maggiore coinvolgimento delle comunità locali, anche in termini di ricadute economiche e benefici territoriali». 

Per mettere in sicurezza gli impianti e i territori vi è bisogno di investimenti importanti.  Per questo Greenpeace, Legambiente e Wwf esprimono «preoccupazione sulla solidità economica di nuovi imprenditori, ma soprattutto sulla volontà di chiunque sarà chiamato a gestire questi impianti a garantire i necessari investimenti per i corretti interventi di ripristino secondo nuove regole e con discussioni proattive e costruttive con enti locali e territori».

Una via di fuga ci sarebbe, ovvero evitare gare che sarebbero un unicum europeo per ri-assegnare le concessioni agli attuali gestori (che hanno fermi investimenti programmati da 15 miliardi di euro), contrattando in questa fase anche le utili forme di riqualificazione  fluviale e ripristino ecosistemico: «Le concessioni sono per oltre due terzi in mano pubblica – spiegava nei giorni scorsi su queste colonne Giuseppe Argirò, vicepresidente di Elettricità futura (che rappresenta oltre il 70% del mercato elettrico italiano), con delega sull’idroelettrico e amministratore delegato della Compagnia valdostana delle acque – Non possiamo permetterci di avviare gare che rischiano di essere frutto di operazioni speculative da parte di soggetti internazionali che non hanno nessun tipo di rapporto con le comunità territoriali. Se poi esiste un problema di reversal perché quell’obiettivo è già stato rendicontato e dobbiamo restituire una quota delle risorse del Pnrr perché quell’obiettivo non è stato raggiunto, anche se fosse una cifra consistente, credo non rappresenti un ostacolo insormontabile, è un costo che può essere redistribuito tra gli operatori. È un sacrificio per noi operatori, ma lo facciamo per il bene e per la sicurezza energetica, lo sviluppo e la competitività del Paese nella transizione energetica. E anche per non rischiare di perdere 6 o 7 anni di investimenti nella più importante fonte rinnovabile dell’Italia che ha un ruolo strategico anche nell’adattamento al cambiamento climatico. Possiamo costruire con tutti gli attori un percorso intelligente verso questo obiettivo».



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