Teofil Pančić (1965-2025) / Serbia / aree / Home

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Si è spento lo scorso 3 febbraio a Novi Sad Teofil Pančić, uno dei più grandi giornalisti e scrittori dello spazio (post) jugoslavo, una voce intensa, sempre rimasta immune da ogni nazionalismo. Lo ricordiamo con una delle sue ultime interviste, rilasciata lo scorso dicembre

(Originariamente pubblicato da Novosti , il 22 dicembre 2024)

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Recentemente lei ha vinto il premio “Srđan Aleksić” per il coraggio nel giornalismo. Un riconoscimento con un retrogusto amaro: viviamo in un’epoca insofferente ad ogni forma di impegno intellettuale fondato sui valori etici. Qualcuno potrebbe obiettare affermando che la nostra epoca non è peggiore di quelle passate. Ma è davvero così? Sono trascorsi quasi trentadue anni dalla scomparsa di Srđan Aleksić, “morto facendo il suo dovere umano” come ha dichiarato suo padre. Aleksić aveva cercato di difendere il più debole, proprio come fa ogni giornalista moralmente integro. Volendo fare un confronto tra il giornalismo di allora e quello di oggi, cos’era il coraggio nel giornalismo trent’anni fa e cos’è oggi? Ritiene sensato tracciare paragoni tra il suo impegno giornalistico passato e quello attuale?

Il coraggio è sempre una questione di contesto. Quella che qui e ora viene considerata una manifestazione di coraggio, forse ieri e in un altro luogo era ritenuta una cosa del tutto ordinaria, o un domani verrà ritenuta tale. L’atto di Srđan Aleksić è qualcos’altro, è sempre e ovunque eroico.

Non ho mai pensato di essere coraggioso. Gli sminatori, ad esempio, sono coraggiosi. L’unica cosa che ho sempre voluto fare era scrivere. Se poi la scrittura e i suoi echi dovevano essere inseriti in un contesto sociale, preferivo pensare alla libertà, all’indipendenza, all’autonomia, anche alla caparbietà… Questi erano i valori a cui tenevo. Dopotutto, sono un figlio (felice?) del punk e del rock ‘n’ roll e [dei mitici locali] di Zagabria – Jabuka, Lap, Kulušić e SC.

Poi però sono scoppiate le guerre e siamo stati costretti a ridefinire alcuni concetti, forse anche quello di coraggio. Avrei preferito che le guerre non ci fossero mai state, anche a costo di non essere mai considerato coraggioso. È meglio vivere in una società in cui non è necessario essere coraggiosi per fare il proprio lavoro e, in generale, vivere con gli altri seguendo la propria coscienza, la propria indole, le proprie idee e inclinazioni.

In Serbia sta accadendo qualcosa di straordinario. Le proteste degli studenti hanno scosso il regime di Vučić in modo inaspettato. Lei come vede questa situazione? Quali effetti potrebbe avere la mobilitazione studentesca?

Cosa contraddistingue le proteste attuali da quelle passate? Il fatto di aver svelato, con una chiarezza inaudita, che lo stato serbo, cioè quelli che lo guidano non si scompongono affatto nemmeno davanti all’uccisione dei propri cittadini, anche quando questi sono vittime collaterali della mafiocrazia che ormai regna sovrana, controlla tutto, senza alcun senso di moderazione, men che meno nell’avidità. Ovviamente, nessuno ha ucciso intenzionalmente quelle persone, ma hanno creato tutte le condizioni affinché morissero. Qualcuno doveva saperlo, ma non gliene fregava nulla.

Come andrà a finire? Il rovesciamento del regime e il perseguimento penale della mafia cleptocratica sarebbero l’unico giusto epilogo. Sappiamo però che spesso la giustizia è maledettamente lenta. Ecco perché questa agonia rischia di protrarsi a lungo. Ad ogni modo, il clima generale nella società è cambiato in modo significativo, qualcosa si è mosso.

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Parlando dei cambiamenti tettonici, secondo lei, la mobilitazione studentesca – come un atto di ribellione, un passo verso la democratizzazione della società serba – potrebbe innescare reazioni di solidarietà di altri cittadini e gruppi sociali? L’immagine che vediamo sugli schermi è quella dei giovani che protestano nelle città della Serbia e non si lasciano spaventare. Vincerà chi sconfiggerà la paura?

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Solo un profeta potrebbe darle una risposta attendibile. Credo però che non siamo mai stati così vicini a creare un clima in cui prevalga la solidarietà. Come una forza inaspettata che appare all’improvviso e risolve il problema.

Forse è giunto il momento di tirare fuori dal cassetto il mio badge del sindacato polacco Solidarność che sfoggiavo orgogliosamente per le vie di Zagabria nella prima metà degli anni ’80? Forse Novi Sad di oggi sarà come Danzica nel 1980?

Lei vive e lavora a Novi Sad, città in cui bisognava ricostruire la vita dopo il tragico crollo della tettoia della stazione ferroviaria. È vero che la routine quotidiana resiste tenacemente, però se la tragedia di Novi Sad è stata “la goccia che ha fatto traboccare il vaso”, portando a galla tutto quello che non funziona nella società serba, adesso come proseguire?

Conosco bene Novi Sad. Per me è stata una città formativa, anche intimamente, proprio come Zagabria e molto di più di Belgrado, dove ho vissuto a lungo. Secondo una narrazione stereotipata, seppur non del tutto infondata, gli abitanti di Novi Sad sono flemmatici, difficilmente si lasciano sconvolgere e forse per questo sono troppo tolleranti con chi li calpesta. Ho l’impressione che questo sia cambiato, in un modo che non ho mai visto prima. La città è in ebollizione, la popolazione è arrabbiata, indignata, umiliata: questa storia non finirà così facilmente. Non prima che fiumi di giustizia, larghi come il Danubio, passino sotto il ponte di Kamenica.

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Il rapporto, storicamente mistificato, tra cultura e politica nello spazio post-jugoslavo, anziché attenuarsi come sarebbe logico nel XXI secolo dominato dal digitale, si sta acuendo. Col tempo la tradizionale ingenuità e innocenza nella dialettica tra politica e cultura ha portato ad un indebolimento della produzione culturale, tant’è che i prodotti culturali influenzano sempre piùil gusto della politica”. Lei come vede l’attuale rapporto tra politica e cultura?

Uhm, “prodotti culturali innocenti”, questa espressione mi ha fatto tornare in mente quel vecchio titolo del socialismo avanzato: “Stai attento, così resto innocente”. Tanto per intenderci, non è rimasta innocente. “Cultura” e “politica” sono interconnesse in innumerevoli modi, alcuni sono inevitabili, altri tossici. L’unico scenario peggiore sarebbe una separazione artificiale di queste due sfere, che non possono essere separate l’una dall’altra se non appunto artificiosamente, quindi in modo violento. Ogni creazione artistica di valore è un atto politico nel senso più nobile del termine, quello emancipatorio.

Soffermiamoci ancora sulla produzione culturale. Volendo fare un confronto tra la situazione in Croazia e in Serbia, emerge che in Serbia vengono realizzate molte più opere cinematografiche e audiovisive e i compensi sono molto più alti che in Croazia, ​​come testimoniano gli operatori culturali che lavorano temporaneamente in Serbia. Questa differenza è riconducibile al fatto che in un paese, come la Serbia, che non è membro dell’UE, gli operatori tv possono essere (e sono) sponsor di contenuti audiovisivi, motivo per cui godono di agevolazioni fiscali. La normativa UE invece vieta tali pratiche. Prevale ancora la convinzione che in Serbia i prodotti culturali siano rivolti al “grande pubblico”, mentre in Croazia (un dato confermato dalle statistiche), i cittadini raramente guardano e si interessano a film e serie nazionali. Certo, lo spazio culturale non ha limiti né confini, però esistono matrici, sistemi, regole… Lei cosa ne pensa?

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Oltre ai motivi che lei ha menzionato, la Serbia è semplicemente un mercato più grande. Belgrado è sempre stata il più importante centro di produzione cinematografica e televisiva nella regione. Questi aspetti però non mi incuriosiscono né tanto meno li ritengo importanti. Del resto, cos’è oggi “un film serbo” o “un film croato”? Stanno spuntando un po’ ovunque le coproduzioni più bizzarre che si possano immaginare, come un film belga-coreano-bulgaro-bhutanese con un regista iraniano, girato in Estonia e in tedesco. Perché non dovrebbe accadere anche in questa nostra piccola regione, angusta e povera, dove parliamo tutti la stessa lingua?

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Oggi, nel cinema, nella televisione e nel teatro c’è più cooperazione e scambio che in molti periodi dello stato jugoslavo. Sembra strano? In realtà non lo è. Tutti hanno bisogno di un pubblico. L’unica eccezione è la letteratura, quella caratterizzata dal dilettantismo accademico e patriottico, che continua a imporsi come custode della più infima concezione dell’identità nazionale. Gli autori di questa letteratura non hanno bisogno di veri lettori a casa, figuriamoci nei paesi vicini: hanno bisogno di uno status, pensioni nazionali, cerimonie. È grazie ai piccolo borghesi altezzosi se questa spazzatura resta presente nella sfera pubblica, e i ministeri della cultura dei nostri governi di destra li assecondano servilmente, al contempo ignorando o ostacolando l’autentica letteratura del nostro tempo.

Il fenomeno della militarizzazione sta prendendo piede in tutto il mondo, e la montuosa penisola balcanica non fa eccezione. In pochi affrontano in modo critico i dati e le statistiche sugli armamenti. Quali sono, secondo lei, le conseguenze ideologiche della militarizzazione? Come e dove le possiamo riconoscere oggi? Allo stesso tempo, l’idea del pacifismo, intesa come concetto teorico, ma anche come pensiero e azione concreta, è stata soffocata in tutto il mondo…

Ma lei pensa davvero che un tempo le cose stessero diversamente? Sono cambiate solo le tecniche e i metodi di militarizzazione, di pari passo con la costante evoluzione delle armi, in modo da poter uccidere il maggior numero possibile di persone nel più breve tempo possibile.

Siamo figli della Guerra Fredda, è vero che qui regnava la pace, ma tutt’intorno c’erano conflitti. Quanto al pacifismo, è sempre stato un sogno romantico dell’“intellighenzia umanista”, mai coi piedi veramente per terra. So di sembrare cinico, ma rivolgo questo cinismo anche verso me stesso, anch’io mi definirei “un pacifista ragionevole”. Cos’altro potrei essere? Sono sempre e ovunque a favore della pace, tranne quando la pace significa arrendersi ai tiranni. Allora abbiamo bisogno dei vari Churchill, non dei Chamberlain, perché questi ultimi non sono che idioti impotenti e incapaci di fronte ai Führer. Questo non è più pacifismo, bisogna chiamarlo in un altro modo, proprio come questa condiscendenza verso Putin.

Nelle kafane in tutta la Croazia circolano due narrazioni sull’ottimismo della vita futura. Una dice che la terza guerra mondiale è già iniziata, ma non è ancora giunta dalle nostre parti. L’altra invece evita qualsiasi riferimento ai temi macropolitici. Alcuni credono che non ci dobbiamo preoccupare finché riusciamo in qualche modo a “preservare” il nostro microcosmo. Altri però sottolineano che l’opzione piccolo borghese guidata da interessi meschini ha trascinato il mondo in un vortice di guerre… Per altri ancora, l’ottimismo ha senso solo finché si gode di buona salute. Lei da dove trae l’ottimismo?

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Temo di aver esaurito le mie riserve di ottimismo. Parlo della mia vita personale. Per quanto riguarda invece il nostro mondo, se la caverà benissimo anche senza di me. Su questo sono d’accordo con “Le ballate” di Krleža: “Non è mai successo che non ce la cavassimo in qualche modo, anche oggi, in qualche modo, ce la caveremo”. Finché l’universo non crolla su se stesso. Ma dicono che fino a quel momento abbiamo ancora un sacco di tempo.

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