“Messina Denaro”: le motivazioni della condanna di “Blu”

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Depositate le motivazioni della sentenza di condanna di Laura Bonafede, la maestra di Campobello di Mazara presunta fiancheggiatrice e amante di Matteo Messina Denaro: “E’ stata una donna di mafia”.

Lo scorso 5 novembre il giudice per le udienze preliminari del Tribunale di Palermo, Paolo Magro, a termine del giudizio abbreviato ha inflitto 11 anni e 4 mesi di carcere a Laura Bonafede, l’insegnante di Campobello di Mazara presunta fiancheggiatrice di Matteo Messina Denaro, attualmente detenuta. Lei, 56 anni, figlia del defunto capomafia della città, Leonardo Bonafede, è stata arrestata il 13 aprile del 2023 per favoreggiamento e procurata inosservanza di pena a Matteo Messina Denaro. Tale capo d’imputazione è stato poi aggravato contestandole il 416 bis, ovvero l’associazione a delinquere di stampo mafioso. Sia il Riesame prima che la Cassazione dopo hanno pertanto confermato l’ordinanza di custodia cautelare in carcere in cui tra l’altro si legge: “La donna si è adoperata in una prolungata assistenza al latitante Matteo Messina Denaro, finalizzata al soddisfacimento delle sue primarie esigenze personali, a non essere localizzato e catturato dalle forze dell’ordine, e a non essere sottoposto alle pene per le quali era stato condannato”. Ebbene adesso il giudice Magro ha depositato le motivazioni della sentenza di condanna. E tra l’altro ha scritto: “E’ di assoluta auto evidenza che le condotte abbiano avuto un sicuro rilievo strategico per l’attività dell’associazione mafiosa. E che non hanno solo consentito ad uno dei massimi esponenti di sottrarsi alla ricerca decennale ma, prima ancora, di continuare a svolgere il proprio ruolo di capo. Matteo Messina Denaro il 3 aprile 2015 nei suoi diari scriveva a “blu” (uno dei nomi in codice di Laura Bonafede): ‘Eravamo una famiglia, davvero una famiglia’. La donna ripensava con nostalgia ai momenti di convivenza: ‘Mi manca tutto, anche guardare un film insieme in modo rilassato’. In un dvd trovato nel covo a Campobello di Mazara c’era l’impronta digitale della donna. Ci fu un momento in cui la presenza delle forze dell’ordine li aveva obbligati ad allontanarsi. Si ricongiunsero nell’ultimo periodo di vita del boss. Ma il rapporto epistolare non si è interrotto. Usavano un codice linguistico condiviso. Nei pizzini celavano identità di cui Bonafede era perfettamente a conoscenza. La maestra conosce gli intimi segreti del latitante, faceva riferimento a questioni di natura mafiosa, come quando scriveva: ‘una volta mi dicesti… ma se persone non ce ne sono più’. Definiva gli investigatori ‘nemici’, ed è stata destinataria delle disposizioni da attuare dopo la morte di Messina Denaro, come quella di recarsi dalla sorella del boss, Rosalia, per prendere la chiave”. E il giudice solleva il punto interrogativo: la chiave della cappella di famiglia al cimitero di Castelvetrano dove Messina Denaro è sepolto o di qualcos’altro? E poi il dottor Magro prosegue: “Non è di certo minimamente credibile che il latitante, notoriamente più pericoloso e più ricercato d’Italia, abbia condiviso importantissimi segreti per Cosa nostra, ovvero non solo la sua collocazione ma anche i suoi spostamenti, le sue precarie condizioni di salute e le questioni di natura mafiosa sino a raccogliere il suo testamento condividendo le direttive sul ‘dopo’ con una persona non affiliata, solo perché ad essa legata affettivamente. Le condotte della Bonafede non sono state circoscritte e rivolte al singolo, ma – semmai – hanno dato un contributo altamente qualificato, essenziale all’associazione mafiosa Cosa nostra in sé, in quanto servente un pericolosissimo capo e latitante. Ecco perchè il contributo di Laura Bonafede non può in alcun modo rientrare (come ha richiesto la difesa) nel novero del favoreggiamento personale sia pure con l’aggravante mafiosa. Le condotte della maestra sono, invece, più coerentemente riconducibili ad un apporto di carattere sistematico sorretto dalla piena consapevolezza del ruolo apicale rivestito dal boss nell’organizzazione mafiosa e della universalmente nota condizione di latitanza dello stesso, inevitabilmente funzionale all’attività illecita collettiva propria dell’associazione mafiosa. Per tutto questo Laura Bonafede è stata una donna di mafia, seppure abbia cercato di sostenere il contrario nel corso delle dichiarazioni spontanee rese in aula”.



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