Il cinema americano sa ancora raccontare chi sta ai margini?

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Pur nella diversità stilistica e tematica, era un cinema che guardava in faccia l’America e raccontava i suoi fantasmi, anche attraverso la vita delle persone comuni. Oggi, nell’epoca delle piattaforme e degli algoritmi, seppur all’interno di un contesto sociale, storico e politico mutato, viene da chiedersi: il cinema americano è ancora capace di farlo? Oppure i suoi nuovi autori, pur talentuosi, hanno perso quella capacità di riflettere sul presente? Durante e dopo gli otto anni della presidenza di Barack Obama (2008-2016), il cinema americano pare aver continuato la sua esplorazione della società, interrogandosi spesso sui traumi ancora aperti della guerra in Iraq e sugli strascichi dell’11 Settembre. In questa fase, emergono film che affrontano direttamente il tema della guerra, come The Hurt Locker (2008) di Kathryn Bigelow e American Sniper (2014) di Clint Eastwood, dove i protagonisti – soldati, non eroi – affrontano il peso della guerra, tanto sul campo di battaglia quanto nel loro ritorno a casa. Allo stesso tempo, opere come Nella valle di Elah (2007) di Paul Haggis e The Messenger (2009) di Oren Moverman spostano l’attenzione sulle conseguenze altre del conflitto, concentrandosi su persone comuni che cercano di fare i conti con traumi difficili da elaborare. In altri casi, il racconto si espande in direzioni nuove e audaci, anche da un punto di vista formale: Redacted (2007) di Brian De Palma, per esempio, esplora la brutalità della guerra in Iraq attraverso un approccio visivo frammentato e sperimentale. Il film si presenta come un collage di fonti diverse, tra cui video di soldati, reportage giornalistici, blog e telecamere di sorveglianza, per raccontare una storia ispirata a un caso reale: lo stupro e l’omicidio di una giovane ragazza irachena da parte di soldati americani. De Palma utilizza questa struttura narrativa per mettere in discussione il controllo e la manipolazione dell’informazione nei conflitti moderni, ponendo un’attenzione critica su come le atrocità vengono raccontate (o nascoste) dai media. Un’opera controversa e provocatoria, che sfida lo spettatore a riflettere sul ruolo della verità e sul costo umano della guerra, mescolando mezzi di comunicazione diversi – dalle riprese amatoriali alle clip di YouTube – per restituire un ritratto inquietante dei media e mettere in discussione uno statuto di verità che le immagini non riescono a restituire fino in fondo. E poi ci sono i tre Batman di Christopher Nolan, che amplificano il senso di ossessione e paranoia che domina l’America post-Undici Settembre, trasformando Gotham in una versione distorta ma riconoscibile della società americana (proteste di Occupy Wall Street comprese). Questi film, pur diversi tra loro, riflettono la capacità di un certo cinema americano, e anche di certi blockbuster, di restituire un’immagine per nulla consolatoria, ma opaca – se non critica – della propria società, raccontando lo spaesamento e le difficoltà di chi, fragile o perdente, cerca il proprio posto in un contesto segnato dalle iniquità, dal caos e dall’incertezza. Tuttavia in quel periodo storico, accanto a queste opere, si registra una crescente inclinazione verso racconti che guardano al passato o che celebrano personaggi iconici. Con il successo dei biopic e della serialità delle piattaforme online, si consolida un nuovo paradigma: gli showrunner diventano figure chiave nel processo di scrittura (e produttivo), e il concetto di storytelling prende il posto di quello di scrittura cinematografica. In questo contesto, il cinema americano perde progressivamente quella capacità che l’aveva caratterizzato a partire dalla nascita della New Hollywood, ovvero la volontà di raccontare senza enfasi le storie di persone comuni. Durante la recente presidenza di Joe Biden (2020-2024), è emerso e si è consolidato quello che si può considerare l’unico vero filone impegnato del cinema statunitense contemporaneo: il “nuovo femminismo”. Un movimento di rinnovata consapevolezza che mira a sfidare le narrative patriarcali tradizionali e a promuovere una rappresentazione più inclusiva, complessa e autentica delle donne. E in cui i personaggi femminili vengono esplorati in tutta la loro complessità, con storie che spaziano dal personale al politico, dalla vulnerabilità alla forza. Questa tendenza, prima di tutto culturale, radicata negli scandali del #MeToo e nel successivo dibattito, ha orientato profondamente le scelte produttive di Hollywood, portando alla formalizzazione di un filone che non si limita a rappresentare conflitti di genere, ma che cerca di esaminare in modo più ampio il sistema di potere e di oppressione insito nella società americana. Tra i film di questa corrente spicca Promising Young Woman (2020) di Emerald Fennell, una black comedy feroce ed esagerata che si distingue per la sua capacità di canalizzare il desiderio di rivalsa delle donne nei confronti di un patriarcato subdolo e opprimente. La protagonista è una figura tragica e ambigua, che – al pari dei reietti e degli alienati della New Hollywood – si offre come specchio delle crepe profonde di un’intera società. Da allora, il cinema neofemminista ha prodotto una sequenza di opere centrali per comprendere il cinema americano dei primi anni Venti. Film come Barbie (2023) di Greta Gerwig, Don’t Worry Darling (2022) di Olivia Wilde e Blonde (2022) di Andrew Dominik riattualizzano il conflitto tra i sessi, mettendo in luce le disuguaglianze sottese alle dinamiche di potere. In alcuni casi, queste opere ricorrono al registro satirico, come fa Gerwig, esprimendo all’interno di una commedia pop un messaggio decisamente critico nei confronti del patriarcato; in altri, si spingono verso toni più cupi, come accade in Blonde, e grotteschi, come nel recentissimo The Substance (2024) di Coralie Fargeat. Il cinema neofemminista può piacere o no, ma ha un grande merito: quello di dare particolare risalto – assieme alle diseguaglianze di genere – alla società che i personaggi abitano e al rapporto che intrattengono con essa. Le protagoniste di questi film si collocano, in un certo senso, nel solco dei grandi personaggi del cinema americano. È un cinema che recupera dalla New Hollywood lo spirito meditabondo e una certa urgenza analitica, seppur con notevoli differenze estetiche, formali, produttive. In un’epoca in cui biopic e i prodotti delle piattaforme sembrano dominare il mercato, il nuovo femminismo cinematografico emerge come una delle poche forze capaci di rispondere a quel vuoto, riaffermando l’importanza di raccontare il presente attraverso le vite degli esclusi, dei fragili e dei ribelli.





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