per raccontare la guerra non basta una voce sola

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Svetlana Aleksevic – Credit: Album / Alamy Stock Photo

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Pubblichiamo l’intervista di Ritanna Armeni e Lucia Capuzzi alla giornalista e scrittrice bielorussa Svetlana Aleksevic, premio Nobel per la Letteratura 2015, che esce oggi sul mensile “Donne, Chiesa, Mondo” dell’Osservatore Romano” (Traduzione dal russo di Eleonora Mancini)

C’è un pendolo alle spalle di Svetlana Aleksievic, che sembra scandire le sue parole e il ritmo della nostra conversazione. A Berlino, la città dove si è rifugiata dopo aver lasciato nel 2020 la Bielorussia, a tre anni dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina, Svetlana ci parla con la voce calma e il tono deciso di chi negli ultimi anni ha trovato una conferma delle sue idee su guerra e pace, vita, morte e amore. Come nei suoi libri, anche nella nostra lunga conversazione i grandi concetti diventano parole semplici e quotidiane.

Ci appare subito chiaro, dalle sue prime parole, che il conflitto che dilania due delle sue “case” – Ucraina e Russia – e passa per la terza, la Bielorussia, dove è nata 76 anni fa, non le ha fatto cambiare idea. «La guerra non ha un volto di donna», ripete come nel titolo di uno dei suoi libri più famosi. «Siamo tutti prigionieri di una rappresentazione maschile della guerra, che nasce da percezioni prettamente maschili, espresse con parole maschili, nel silenzio delle donne». «Abbiamo vissuto eventi così traumatici – continua – che credo solo l’amore potrà salvarci. Senza amore, non possiamo né tornare indietro, né proiettarci nel futuro. Solo attraverso l’amore per la vita, per l’umanità, possiamo sperare di ricostruire ciò che è stato distrutto e pensare a un domani».

E allora parliamo d’amore. Lei non lo nomina mai esplicitamente nei suoi libri, ma è il protagonista nascosto di ogni pagina ed è evidente che la sua assenza è la causa primaria della guerra. Non si può parlare di pace senza parlare di amore. Ha mai pensato di rendere l’amore il protagonista diretto dei suoi racconti corali? Oppure, come lei stessa ha detto è troppo difficile?

«Ho iniziato a scrivere un libro sull’amore quando ancora vivevo in Bielorussia, ma i miei manoscritti sono rimasti là, a casa, quando sono stata costretta a fuggire durante la rivoluzione del 2020. Arrivata in Germania, il primo anno è stato di grande disorientamento. Ma quando è scoppiata la guerra in Ucraina, ho capito che il sovok, l’uomo sovietico, l’eroe dei miei libri, legato al suo passato dell’Urss, non era affatto morto. La sua storia continuava. Ed io dovevo continuare a raccontarlo».

Quando ha ricevuto il Nobel per la Letteratura, ha dichiarato: «Ho tre case: la mia terra bielorussa, che è la patria di mio padre e dove ho vissuto tutta la mia vita; l’Ucraina, che è la patria di mia madre e dove sono nata; e la grande cultura russa, senza la quale non riesco a immaginarmi. Ho care tutte e tre». Oggi è ancora così? Sono rimasti gli stessi legami, o qualcosa è cambiato?

«I miei sentimenti non sono cambiati. Capisco il dolore degli ucraini che non vogliono ascoltare e prendono le distanze dalla lingua e dalla cultura russa. Proprio come accadde con la cultura tedesca dopo la seconda guerra mondiale. È un meccanismo comprensibile, ma anche pericoloso. Che incontro anche fuori dall’Ucraina. La ragazza che mi fa i capelli qui, a Berlino, ha smesso di frequentare negozi russi per non sentire più quell’idioma. Ma la cultura non ha colpe, è solo uno strumento, un’entità a parte, al di là delle scelte politiche. La colpa della guerra è dei politici, di chi è alla guida dei Paesi».

In Europa abbiamo vissuto per molto tempo in pace. Le guerre erano altrove, lontano da noi, e potevamo chiudere gli occhi. Ma oggi, con i conflitti a Gaza, in Libano, in Ucraina, in Siria, la guerra è tornata a toccarci da vicino. Dopo la seconda guerra mondiale, si aspettava un nuovo periodo di guerra?

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«Dopo la caduta dell’Unione sovietica ho viaggiato molto e ho parlato con tante persone. Ho scoperto che, mentre nelle grandi città – Mosca, San Pietroburgo, Minsk, Kiev – c’era l’illusione di un cambiamento democratico, nei villaggi e nelle piccole città la realtà era molto diversa. La gente era legata al passato e parlava di Stalin come se fosse il salvatore, con frasi tipo “Ah, se tornasse Stalin, metterebbe tutto a posto”. Questo mi ha fatto capire che la trasformazione toccava solo la superficie, nel profondo nulla era cambiato. La gente era ancora legata a un passato che non voleva lasciar andare. I miei amici a Mosca non volevano crederci, ma era chiaro che il processo di Gorbaciov era stato solo di facciata, qualcosa che riguardava l’élite».

E gli altri? Il popolo? Quelli che non facevano parte dell’élite?

«Continuavano a desiderare un socialismo “con il volto umano” e non, come tanti hanno creduto, il capitalismo. Mio padre, che ha vissuto come un trauma la fine del comunismo e voleva essere sepolto con la tessera del partito, mi diceva: “L’idea era buona, è stato Stalin a rovinarla”. Non era un vero sovok (un termine dispregiativo con cui in Russia si indicano le persone con una mentalità rigidamente sovietica, ndr) era un figlio del suo tempo. E molti erano come lui. Il dramma di quei settant’anni di vita sotto il regime sovietico non è stato capito. Sia dentro che fuori dalla Russia. Non si è compreso cosa significava vivere con la mentalità sovietica».

La sua letteratura è corale. C’è il racconto che abbraccia le vite di uomini e donne nell’ex Unione Sovietica, il racconto che mostra la guerra dal punto di vista femminile. Oggi, in un’altra epoca di conflitti, a chi affiderebbe il compito di raccontare questa guerra, e le guerre di oggi?

«Ho appena finito di scrivere un libro che parla della rivoluzione in Bielorussia nel 1920, della guerra in Ucraina e della delusione non solo nei confronti di Putin , ma proprio del popolo russo. È difficile che una sola voce racconti una storia così complessa. Potrebbe forse raccontare il dolore, ma ora è necessario fare di più, dare un senso a tutto ciò che è accaduto. Non credo che ci sia una persona – una sola persona – che capisca veramente cosa stia succedendo in Ucraina. La gente è confusa, smarrita. Lo è l’intellighenzia, lo sono le persone comuni. Gli ucraini parlano del loro dolore. La questione vera però è cercare di capire perché accade tutto questo. Anche io ho pensato che il sovok fosse finito invece è proprio lui è andato a combattere in Ucraina».

Ne Gli ultimi testimoni raccoglie le testimonianze di coloro che da bambini hanno vissuto l’occupazione tedesca in Bielorussia. Bambini che raccontano l’orrore visto, quando la guerra sembrava essere l’unico orizzonte possibile. Oggi i bambini di Gaza, i bambini israeliani, i giovani ucraini e russi mandati al fronte sono ancora vittime della guerra. A ottant’anni dalla fine della seconda guerra mondiale riusciamo a offrire solo violenza?

«Pensavamo che nel XXI secolo avremmo risolto i conflitti senza violenza, non è stato così. In alcuni articoli russi ho letto che questa è una “guerra di vecchi”. In effetti la generazione al potere è vecchia e ci trascina in un conflitto che appartiene al passato. Guardiamo le guerre di oggi, si combatte con mentalità da secolo scorso: occupazione, violenza, un modo di concepire il progresso solo attraverso la forza».

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Si riferisce anche alla guerra in Ucraina?

«Certo, anche a quella. Quando è iniziata abbiamo visto qualcosa che fino a qualche tempo prima immaginavamo impossibile: carri armati in marcia verso il confine, come se fossimo tornati indietro nel tempo. A volte mi pareva di essere in pieno Medioevo. Solo qualche anno fa eravamo tutti convinti che saremmo entrati in un’era di cambiamento. Era difficile pensare che, nel XXI secolo, le divergenze dovessero essere risolte con la violenza. Oggi ci rendiamo conto di quanto poco il mondo sia cambiato davvero».

Le guerre di cui parla sono sempre alimentate da ideologie: da un’idea di giustizia o di ingiustizia che gli uomini costruiscono per giustificare la lotta. La cultura occidentale ha cercato di convincerci che le ideologie siano finite, eppure le guerre continuano. Perché?

«I filosofi e politici hanno fallito nel loro compito. Ancora oggi, prevale una concezione antiquata del valore della vita umana. Ricordo una riunione dell’Accademia delle Scienze, durante la tragedia di Cernobyl. Un professore anziano disse: «Sì, possiamo evacuare le persone, ma chi avvisa gli animali? Chi salva la vita degli uccelli, dei cavalli, dei cani?». Ecco, l’uomo pensa sempre e solo a se stesso. Cernobyl rappresenta il modo in cui l’uomo concepisce la vita. Ancora oggi nessuno sembra riflettere su come risolvere i conflitti che ci separano».

Ci sta dicendo che l’umanità, nel suo complesso, è regredita? È tornata indietro rispetto ai valori della convivenza, dell’amore?

«Negli ultimi trent’anni c’è stata una regressione profonda nel modo in cui l’essere umano vive i sentimenti e la spiritualità. Ha semplificato tutto, ha messo da parte la formazione umanistica per privilegiare quella scientifica e tecnica. Ma senza la prima dimentichiamo le qualità che connotano l’essenza dell’essere umano, quelle che Dio ci ha donato».

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Abbiamo parlato del sovok e della sua involuzione. E l’uomo occidentale?

«Mi chiedo come si sia involuta l’anima occidentale. Forse siete voi, voi occidentali, a dover raccontare come siete cambiati. Io so che la democrazia che abbiamo oggi ci è stata data dalla cultura occidentale. So anche che assistiamo al ritorno di pulsioni anti-democratiche pericolose e inquietanti. Spero che per l’Ucraina prevalga la democrazia. Se vincesse Putin, il mondo andrebbe verso un futuro militarizzato, dove ogni Paese sarebbe costretto a schierarsi, attaccare o difendersi».

Fra le poche voci di pace, in un mondo che sembra sempre più diviso, c’è quella del Papa. Francesco non ha mai risparmiato parole forti per chiedere la fine della guerra, o almeno una tregua. Crede che ci sia spazio per l’ascolto del capo della Chiesa cattolica?

«A Mosca, ho visto sacerdoti ortodossi benedire le armi dei soldati e anche i sottomarini destinati a portare la morte. Non mi è piaciuto. La Chiesa non può benedire la violenza. In Bielorussia, durante la rivoluzione, ho visto invece che molti sacerdoti cattolici hanno aperto le porte delle chiese per dare rifugio ai manifestanti. E hanno salvato tante vite. La Chiesa cattolica ha mostrato una grandezza che altre istituzioni non hanno avuto. Ho ancora un ricordo molto netto di Cernobyl, quando le chiese si riempivano di gente disperata in cerca di risposte. Oggi, credo che dobbiamo tornare a quei valori religiosi, alla fede nel futuro. Senza futuro, non c’è umanità».

Torniamo alle sue tre case. Che cosa sogna per esse?

«Sogno una Bielorussia libera e democratica, che non sia più occupata, e un’Ucraina che superi la terribile prova della guerra. Il popolo ucraino ha sofferto troppo, ha perso molte vite e spazi culturali. Sogno anche che la cultura russa riscopra il valore della vita umana, perché questo è il compito principale di ogni artista e sacerdote. Abbiamo bisogno di tornare a rispettare tutti gli esseri viventi. Ricordo ancora le lacrime negli occhi dei cavalli a Cernobyl, costretti a essere abbattuti. In quel momento ho capito che eravamo tutti parte di un unico mondo, un’unica vita. Non ha più senso sentirsi solo russi o bielorussi, siamo tutti vittime di un’offesa più grande, quella perpetrata dall’essere umano contro la vita».

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