Nel teatro politico italiano, la sinistra sembra non trovare pace nel suo ruolo di perenne minoranza. Incapace di accettare il verdetto delle urne, essa si aggrappa all’immobilismo e alla difesa corporativa di una magistratura militante, arroccata nella tutela dei propri privilegi. Un’alleanza tacita che mina le fondamenta della democrazia rappresentativa e ostacola il cambiamento voluto dalla maggioranza degli italiani. I segnali di questo attacco al governo erano evidenti già durante le recenti cerimonie di inaugurazione dell’anno giudiziario. In un’ostentazione teatrale, i magistrati più alti in grado, adornati con antiquati e ridicoli costumi orlati di pelliccia d’ermellino, hanno abbandonato le aule con passo che voleva essere ieratico durante gli interventi dei rappresentanti governativi. Un gesto plateale che tradisce un’arroganza istituzionale e una mancanza di rispetto per le istituzioni democraticamente elette.
La resistenza della magistratura militante alle legittime riforme proposte dal governo in tema di giustizia configura un conflitto tra poteri dello Stato. Si mette in discussione il potere-dovere del Parlamento di legiferare liberamente, secondo il mandato ricevuto dalla maggioranza degli elettori, e la potestà dell’esecutivo di agire perseguendo i principi della sicurezza e dell’interesse nazionale. Emblematico è il recente caso del processo a Matteo Salvini, conclusosi con un’assoluzione piena. L’accusa di sequestro di persona per i migranti che una ONG spagnola pretendeva di sbarcare a tutti i costi in un porto italiano, anziché in uno maltese o spagnolo, si è rivelata infondata. Fallito il tentativo di depotenziare Salvini e, di riflesso, il governo, ora si è passati al bersaglio grosso. Con l’innesco di un esposto da parte di un azzeccagarbugli con trascorsi politici variegati, un Pubblico Ministero ha avviato un’indagine che coinvolge la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, il Ministro della Giustizia Carlo Nordio, il Ministro dell’Interno Matteo Piantedosi e il Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano. L’accusa? Favorire il rimpatrio/espulsione del comandante libico Osama Njeem Almasri, ricercato dalla Corte Penale Internazionale per crimini di guerra.
Ad un osservatore esterno, poco avvezzo alle dinamiche italiane, mettere sotto accusa il capo del Governo e mezzo esecutivo potrebbe far sembrare l’Italia una repubblica giudiziaria delle banane. Un Paese in cui un governo democraticamente eletto viene tenuto sotto scacco da un altro potere dello Stato, la magistratura, che ha un contenzioso aperto con l’esecutivo intenzionato a introdurre riforme sgradite al ceto giudiziario. Il tutto avviene senza tener conto delle necessità del Paese, che in Libia ha capisaldi fondamentali per l’interesse nazionale. Metà della Libia è sotto l’influenza russa, e la Russia è in guerra con l’Occidente. Certo, non spetta alla magistratura la tutela dell’interesse nazionale, ma limitarsi all’applicazione pedissequa di codici e pandette non permette di comprendere le logiche della scienza politica e della Ragion di Stato. È da verificare se, anche dal punto di vista procedurale, l’azione del governo non sia stata corretta, lo verificherà il tribunale dei Ministri. Tuttavia, la sguaiata approvazione da parte dell’opposizione all’azione del Pubblico Ministero riflette come la sinistra, per mancanza di temi, sia ormai al traino della magistratura militante. Ha abdicato alla politica, delegando il suo ruolo di opposizione a un altro potere dello Stato.
L’INAUGURAZIONE DELL’ANNO GIUDIZIARIO A TORINO
La Presidente Meloni ha reagito con fermezza, dichiarando sui social: “Non mi faccio intimidire”. Ha sottolineato che la decisione di rimpatriare Almasri è stata presa per garantire la sicurezza nazionale, dopo che la Corte d’Appello di Roma aveva deciso di non convalidare il suo arresto per questioni procedurali. Meloni ha ribadito la sua determinazione a proseguire sulla strada delle riforme, affermando: “Non sono ricattabile, non mi faccio intimidire. Vado avanti senza paura”. In un contesto internazionale complesso, con la Libia al centro di interessi strategici e la necessità di gestire flussi migratori e minacce alla sicurezza, l’azione del governo appare motivata dalla tutela dell’interesse nazionale. La sinistra, invece di contribuire al dibattito politico con proposte costruttive, si limita a cavalcare le iniziative di una parte della magistratura, dimostrando una preoccupante mancanza di visione e responsabilità. L’Italia non può permettersi di essere ostaggio di giochi di potere interni che minano la sua credibilità e la sua capacità di agire sullo scenario internazionale. È tempo che ogni istituzione rispetti i propri confini e che la politica torni a essere il luogo del confronto democratico, senza interferenze indebite da parte di poteri che dovrebbero essere indipendenti e imparziali. In conclusione, la vicenda Almasri evidenzia una pericolosa commistione tra politica e magistratura, con la sinistra che, incapace di accettare il proprio ruolo minoritario, si fa strumento di una parte della magistratura resistente al cambiamento. Un atteggiamento che rischia di trasformare l’Italia in una repubblica giudiziaria delle banane, dove le decisioni democratiche vengono costantemente ostacolate da interessi corporativi e da un’opposizione incapace di proporre alternative credibili.
IL GENERALE ALMASRI TORNATO IN LIBIA
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