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Nel suo film «L’abbaglio» così come nel lavoro teatrale «Sarabanda», Roberto Andò svela come il suo interesse prevalente sia il tumulto dell’identità umana, che riesce a rappresentare con suggestione in una molteplicità di mezzi espressivi. E questo, insieme con l’idea della vita come inestricabile insieme di verità e menzogna, appare evidente anche nel libro Il coccodrillo di Palermo (La nave di Teseo, pagine 249, euro 18), il più «sciasciano» dei suoi romanzi.
In un labirinto di silenzi e svelamenti, omertà e dicerie, colpi di scena e occultamenti, si snoda un racconto dove il passo narrativo evoca atmosfere alla Dürrenmatt e i destini umani appaiono governati dalla casualità, o dal caos. O anche dove, come dice il protagonista, «il poliziesco è una forma di vita».
L’abbaglio, il nuovo film di Roberto Andò: «Un racconto dei paradossi della storia»
Il titolo, riferito a un animale imbalsamato esposto in una taverna della Vucciria, è metafora di sicilianità, o meglio dell’appartenenza alla città di origine dell’autore in più punti sovrapponibile a Napoli. Qui Palermo è un mondo a parte, una «città bambina» dove gli abitanti creano una sorta di «tribù separata… esclusa dai miglioramenti che spettano al genere umano, e dunque anche alle speranze».
Chi ci vive risulta «affetto dall’occhio del ciclope», avviluppato in una condizione di vigilanza e sospetto che lo porta a vivere come una spia. Anche chi se ne è allontanato si porta dentro questa dimensione, come scopre il protagonista dal nome forse non per caso con le stesse iniziali dell’autore: Rodolfo Anzo, da tempo trasferito a Roma dove lavora come documentarista. Vale a dire persona dall’acuta attitudine a osservare con occhio indagatore, o spiare.
Tutto comincia con la telefonata di una vicina, e come vedremo il telefono sarà l’oggetto-marcatore dell’intera storia. Nell’appartamento dei genitori, morti dieci anni prima e da allora non più frequentato da Rodolfo, c’è stato uno strano tentativo di rapina: effrazione della porta, ma nessun oggetto portato via. Malvolentieri Rodolfo torna a Palermo e da qui, con registro tra l’onirico e il realistico, il racconto si snoda come un gioco di scatole cinesi, o passaggio da una stanza narrativa all’altra, quasi si attraversasse in un’infilata di ampi saloni uno di quegli antichi palazzi nobiliari siciliani alla Gattopardo, ombreggiate da tende svolazzanti e abitate dal mistero.
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Farà bene, il lettore, a restare vigile senza troppo farsi distrarre dalla gradevolezza della scrittura: il racconto è disseminato di dettagli che sono indizi preziosi da seguire, come tessere di un puzzle o frame di un documentario, in un’alternanza di temi sul sogno, la veglia, il tempo. Per esempio, la donna presa da malessere sul traghetto, che sviene, ed è una «sonnologa» impegnata in una ricerca su come si dorme a Palermo; e ancora il fatto che la notizia della morte del padre sia stata appresa da Rodolfo per telefono mentre sta montando un film intitolato «Puzzle»; e poi il ritrovamento di una scatola segreta sigillata con ceralacca, forse vero obiettivo del ladri, in cui c’è una chiave misteriosa. La chiave è il punto di svolta per accedere a cinque bobine registrate, più una, che contengono altrettante intercettazioni telefoniche.
Sono il singolare lascito del padre, che fu prima assistente del titolare di cattedra di Filosofia del Diritto, poi poliziotto con attitudine speculativa e amore per la musica classica. Rodolfo ascolta le bobine, ciascuna di esse lo introduce a una spiata illegale – il padre avrebbe dovuto distruggerle – e alla scoperta di una relazione tra persone. Venendone a conoscenza solo dieci anni dopo, Rodolfo apprende in ritardo la volontà del padre, di affidargliele per consegnarle agli interessati. Prima di farlo s’inoltra in modo abusivo nelle «vite degli altri» di una città crepuscolare in cui lampeggiano stragi di mafia, malintesi sensi dell’onore, soprusi delle forze dell’ordine, tradimenti e segreti, violazioni del diritto all’oblìo. Riemerge anche il sospetto che la morte del padre, trovato esanime con le cuffie alle orecchie nell’ascolto di Bach, non sia stata casuale. E proprio come nella vita vera, non sempre tutti i nodi vengono al pettine, né si crea una connessione tra le esistenze svelate dalle intercettazioni. Inoltre, «ciò che a noi sembra serio, significativo, molto importante, col passar del tempo sarà dimenticato o sembrerà irrilevante», per dirla con il Cechov delle «Tre sorelle», in una delle più esplicite evocazioni teatrali (tra cui quella autoironica sul teatro «da sempre connaturato alla noia…, il prezzo che paghiamo per giocare con le nostre illusioni»).
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Infine, su tutto domina la percezione ambigua della vita, chiosata ad ogni inizio di capitolo da una diversa citazione di Thomas Bernhard e riassunta così da Rodolfo-Roberto: «Un repertorio il cui senso finale è un enigma senza capo né coda».
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