DAZI USA vs UE/ “Dobbiamo allargare il mercato, serve un’Europa più piccola che guardi a Cina e Africa”

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Donald Trump fa la faccia cattiva alla UE, promettendo dazi. Forse non a tutti, perché – ha detto il presidente americano – “Meloni mi piace”. E Ursula von der Leyen, per tutta risposta, dichiara che l’Europa guarderà a Cina e India. Lo choc per le dichiarazioni del nuovo presidente americano potrebbe essere salutare per Bruxelles, costringendo l’Unione Europea a riflettere sulle sue contraddizioni. La UE farebbe bene a guardare a Pechino e Nuova Delhi, commenta Giuliano Noci, prorettore del Polo territoriale cinese del Politecnico di Milano, ma dovrebbe pensare anche all’Africa, un continente potenzialmente ad alto tasso di crescita. Per farsi considerare dagli USA, però, l’Europa deve cambiare la sua governance: la versione attuale a 27 Paesi non le permetterà mai di prendere le decisioni necessarie per affermarsi fra gli attori principali della scena mondiale. Meglio una UE ridotta ma più coesa.



Trump promette dazi contro l’Europa e von der Leyen annuncia che la UE è pronta a fare affari con Cina e India. Bruxelles mostra i muscoli che non ha?

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Questo è il primo effetto positivo dell’avvento di Trump. Il presidente americano, per certi versi, pone il mondo di fronte a un bivio e la prima conseguenza positiva è questa: finalmente l’Europa comincia a capire che non deve guardare solo agli Stati Uniti. Rispetto agli USA ha una vocazione più manifatturiera, eccessivamente orientata, tuttavia, tranne la Germania, verso l’Atlantico. Credo che il fatto di guardare a Est sia invece molto positivo. Essendo un continente in surplus commerciale, abbiamo bisogno di diversificare maggiormente la nostra presenza nei mercati esteri.



In quali direzioni dovremmo guardare?

Bisognerà rivolgersi anche al Sud. Dobbiamo costruire basi solide in quello che sarà il continente che avrà il maggior tasso di crescita nel futuro, che è l’Africa, anche se la partita rischiamo di averla già persa: la Cina lì è già molto presente. Alla von der Leyen, quindi, direi: “Benvenuta nel mondo reale”. Ma bisogna allargare lo sguardo.

Come Europa che cosa possiamo offrire ancora a partner come la Cina e l’India o altri ancora? Von der Leyen punta su tecnologie pulite e infrastrutture digitali: è questa la strada?

Nel momento in cui ci approcciamo a Cina e India, dobbiamo ricordare che sono Paesi con una massa critica molto significativa e che quindi con loro le partite negoziali saranno molto dure. Dobbiamo offrire per prima cosa il fatto che siamo un mercato interessante; del resto, la Cina senza l’Europa, come si suol dire, “batte in testa”. Poi, in relazione ad alcune tecnologie pulite, ambientali (non certamente al fotovoltaico, dove i cinesi ci massacrano), siamo messi bene. Abbiamo, infine, prodotti come quelli del lusso e dell’agroalimentare che sono piuttosto interessanti. La Cina in molte tecnologie è più avanti di noi, in altre no: è una partita dura, ma che può essere giocata, soprattutto se l’Europa rimane unita. Se si spacca, la partita è persa sia con la Cina che con l’India.



Rispetto all’Africa, invece, come ci dobbiamo comportare?

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Possiamo essere il motore che contribuisce allo sviluppo, a patto di non fare come in passato: non possiamo essere troppo sofisticati chiedendo “riforme”. I cinesi, quando arrivano, offrono il loro supporto e non esigono troppo in cambio. Andare subito a chiedere a un africano la democrazia è il miglior modo per non farsi ascoltare.

In questo contesto il Piano Mattei dell’Italia può essere un modello?

Sì, è una buona idea, però va riempito di contenuti. In tutta questa partita l’Italia, essendo nel mezzo del Mediterraneo e quindi prospiciente all’Africa, può trarre dei grandi vantaggi. Nel continente, d’altronde, abbiamo uno straordinario ambasciatore naturale che si chiama ENI, una testa di ponte straordinaria su cui dobbiamo fare leva.

Se guardiamo all’Italia, invece, che futuro vediamo? Ormai, in diversi settori industriali, vediamo una progressiva chiusura di aziende; nonostante i numeri ancora positivi della crescita, stiamo andando verso il burrone?

La situazione italiana è articolata. Il tema di fondo, il primo tema che vedo come sfida e che fa il paio con quello che ha detto von der Leyen, è che siamo molto esposti alla Francia e alla Germania, su mercati e Paesi che sono in difficoltà: abbiamo bisogno di riorientare il portafoglio di destinazione dei nostri mercati. Secondo: abbiamo un’identità manifatturiera relativamente impermeabile al digitale. Ed è un grosso problema. Questi due elementi, unitamente alla piccola dimensione del sistema italiano, sono le tre sfide che dobbiamo affrontare.

Per rilanciare l’economia europea è necessario rivedere il Green Deal?

Il Green Deal deve essere ampiamente rivisto. Se l’invito di Trump è “Drill, baby, drill”, dobbiamo tenerne conto. La sostenibilità ambientale rimane un obiettivo, ma deve essere anche sostenibilità economica: dobbiamo renderci conto che operiamo in un mondo dove c’è un presidente degli Stati Uniti che dice di trivellare. E non c’è energia poco cara come quella che si produce col petrolio e col carbone. Il tema di fondo è che siamo costretti a un bagno di realismo, orientando il mondo verso la sostenibilità ambientale, ma senza ammazzare le nostre imprese. Diversamente rischiamo di creare un deserto industriale.

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Va bene guardare alla Cina e all’India, ma i rapporti con gli Stati Uniti come si svilupperanno?

Credo che i rapporti lungo l’asse atlantico manterranno un livello di sufficienza. Dipenderà molto da cosa succede alla Russia. Gli Stati Uniti considerano l’Europa un interlocutore naturale a certe condizioni: se la Russia è forte, per cui c’è ancora bisogno di una zona cuscinetto, o se l’Europa diventa adulta, smettendo di essere un vaso di coccio tra vasi di ferro come Cina e Stati Uniti.

La politica economica abbozzata dalla von der Leyen basterebbe a rafforzare l’Europa e a farne un vero competitor dei due colossi mondiali?

Con questo sistema di governance l’Europa non tocca palla. La UE, per diventare adulta, deve cambiare governance e per farlo può darsi che non sarà più a 27. Con la presenza di così tanti Paesi manifesta la sua debolezza: ci sono così tanti interessi diversi che, alla fine, l’Unione Europea non rappresenta nulla. Meglio un’Europa a 10 e coesa, sarebbe molto più rilevante. Bisogna prendere coscienza delle divisioni e ripartire con un processo che lavora sulle omogeneità e non cerca di ricomporre diversità che, a mio modo di vedere, nel breve periodo non possono essere ricomposte.

(Paolo Rossetti)

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