I “canabresi” hanno portato il loro peperoncino fino all’Ontario

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Tra la Calabria e il peperoncino c’è un connubio inscindibile, talmente noto da essere ormai riconosciuto anche fuori dai confini nazionali. Da Los Angeles a Tokyo, la Calabria compare nei menù di innumerevoli locali che offrono pietanze con all’interno la ‘nduja, insaccato spalmabile dove il peperoncino calabro è un elemento essenziale.

Figurarsi in Italia, dove questa associazione viene appiccicata a qualunque persona originaria della regione più a sud della penisola. «Ma come, non ami il piccante? E che caspita di calabrese sei?» è una domanda che chiunque ha sentito o pensato almeno una volta, trovandosi davanti un vibonese o un crotonese che rifiuta oppure addirittura lacrima appena ingerisce qualcosa di più o meno speziato.

La storia di un legame

Questo legame però va ben oltre la piccantezza e affonda le proprie radici tra il XVI e il XVII secolo quando, dopo la scoperta dell’America, le piante del Nuovo Mondo cominciarono ad arrivare in Europa. Un rapporto ricostruito dall’antropologo Vito Teti in Storia del peperoncino (Donzelli editore), un saggio che allarga lo sguardo su questa bacca straordinaria, e in cui vengono appuntati i molteplici legami con la Calabria. Una delle prime testimonianze risale a Tommaso Campanella, filosofo seicentesco di Stilo (Reggio Calabria), che nei suoi testi medici parla a più riprese del “piper rubrum indicum” e delle sue virtù terapeutiche.

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Ma il piper rubrum ha trovato terreno fertile nelle regioni mediterranee, e in Calabria in particolare, soprattutto per la sua ampia distribuzione fra i ceti popolari, spesso segnati da una dieta povera; una cucina di sussistenza, che aveva in questa bacca un alleato imprescindibile: facile da coltivare e dal sapore intenso, dava dignità anche al pasto più difficile da mandar giù. Banalmente, poi, prendere a morsi un peperoncino rappresenta una grande prova di resistenza, e da cui deriva, scrive Teti, tutta una serie di rituali identitari, che si rafforzano quanto più ci si allontana dalla propria terra.

Tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, l’emigrazione calabrese verso l’America diventa un fenomeno di massa. Negli Stati Uniti soprattutto, guardati come una sorta di paese di Cuccagna, dove non mancano cibi preziosi come carne o dolci. Secondo Teti, avviene una sorta di “Carnevale realizzato”, che non spezza i legami con le proprie origini, ma anzi li rinsalda. Il suo gusto focoso riporta ai sapori di casa, contribuendo a creare l’immagine stereotipata del calabrese che va in giro col peperoncino in tasca.

«Porta con te quello che puoi, ma non dimenticarti il peperosso. Portane quanto più ne puoi», scriveva alla moglie il padre del boss italo-americano Frank Costello, nato nella provincia di Cosenza nel 1891. Da consumare essiccato, in polvere, sott’olio oppure fresco, il peperosso diventa così un must anche per generazioni di calabresi trapiantati all’estero. «Bisogna però fare attenzione a non ridurre al solo peperoncino un’intera cultura culinaria che è ben più ampia, dal bergamotto alla soppressata, dal cedro fino allo stoccafisso», avverte l’antropologo. Un discorso che vale per la Calabria e di conseguenza anche per le sue comunità sparse per il mondo.

Peperonata Lane

Sui media calabresi, ogni settembre sono frequenti gli articoli con immagini e testimonianze dal Canada, che immortalano seconde e terze generazioni concentrate e festose mentre preparano le conserve di pomodoro in vista dell’inverno. La provincia canadese dell’Ontario rappresenta infatti uno dei territori con la più grande concentrazione di calabresi in tutto il mondo.

Le associazioni culturali locali contano la presenza di oltre 200mila persone di origine calabra, dati forse un po’ gonfiati ma neanche troppo lontani dalla realtà, come può immaginare chiunque abbia mai visitato Toronto. In tutta la città sono numerose le macellerie “calabresi”, così come ristoranti o panifici.

Nel quartiere di Little Italy c’è addirittura un vicolo chiamato Peperonata Lane, in onore di una curiosa tradizione portata avanti dalla famiglia calabro-canadese dei Gallé. «È cominciato tutto negli anni Novanta, quando assieme alla mia famiglia abbiamo cominciato a cucinare questa peperonata per pochi amici, da mangiare all’aperto davanti al garage di casa», spiega Francesco Gallè, nato a Serra San Bruno (Vibo Valentina) e trasferitosi in Canada assieme ai genitori nel 1972, quand’era ancora un bambino.

«I primi tempi c’erano una dozzina di persone al massimo, ma la peperonata era talmente apprezzata che chiunque venisse chiedeva di portare un amico l’anno successivo. Così, di volta in volta, si è passati a 15, 30, 50 invitati, fino ad avere oltre un centinaio di persone che si radunavano davanti casa nostra a mangiare», racconta Gallè. Nel 2013, il consiglio comunale di Toronto ha ufficialmente denominato questa viuzza Peperonata Lane, riconoscendo così una festa di quartiere che accoglie canadesi e italiani, animata da canzoni e danze della tradizione popolare calabrese, oltre che una gran quantità di peperonata e pietanze tipiche.

La storia della famiglia Gallè ha seguito un percorso simile a quello di molti migranti calabresi arrivati in Canada. Il padre di Francesco si trasferì durante gli anni Cinquanta, «lavorava come boscaiolo nella provincia di Halifax, teneva per sé il minimo indispensabile e mandava a casa tutti i suoi guadagni. Dopo il suo ritorno portò l’intera famiglia a Toronto. In casa c’erano una ventina di persone, tutte delle nostre parti, e, anche con un oceano a separarci dalla nostra terra, sembrava di stare a Serra San Bruno».

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L’attaccamento dei “canabresi” ai propri luoghi d’origine li distingue dai sentimenti più blandi che di solito caratterizzano altre comunità di calabresi sparse per il mondo. Secondo Teti, questo è spiegabile da due elementi: «Innanzitutto gran parte dell’emigrazione dalla Calabria, verso gli Stati Uniti o l’Australia, è avvenuta tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento». Molte persone, tra cui anche il padre di Teti, sono arrivate in Ontario durante gli anni Cinquanta, «ci sono dunque meno generazioni di mezzo. Bisogna poi considerare», prosegue l’antropologo, «che in quel periodo a trasferirsi in Canada non c’erano singoli calabresi, ma intere comunità, con paesi che si svuotavano all’improvviso alla ricerca di una vita migliore oltreoceano».

Ex ordinario di antropologia culturale all’università della Calabria, Teti è un attento osservatore dei fenomeni di spopolamento dei paesi dell’entroterra, calabresi in particolari; il suo ultimo libro pubblicato da Donzelli, Il risveglio del drago, tratta del caso particolare di Cavallerizzo, in provincia di Cosenza. Ha coniato “restanza”, un concetto che riassume l’atto di impegno verso la propria terra, nel tentativo di trasformare l’abbandono in un’opportunità di rinascita.

Processi che necessitano tempo, anche se qualche risultato comincia ad arrivare. Parte della crescita turistica calabrese degli ultimi anni riguarda proprio i borghi e il turismo culinario. A Cardeto, paesino in cima all’Aspromonte, c’è una presenza costante di turisti provenienti da tutto il mondo, che hanno come tappa fissa “Il tipico calabrese”, una museosteria che oltre alle pietanze locali, offre agli ospiti la possibilità di addentrarsi dentro la cultura regionale tra libri antichi, concerti di musica tradizionale e visite guidate in zona. «Tanti ospiti vengono dall’estero, ma molti altri sono calabresi di ritorno», spiega il titolare Marcello Manti, «persone provenienti dal Nord Italia ma anche dall’Argentina o dal Canada, che arrivano a Cardeto per ritrovare i sapori persi della cucina dell’infanzia».

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