Salvatore Montefusco, che nel 2022 ha ucciso la moglie Gabriela Trandafir e la figlia Renata, non è stato condannato all’ergastolo, ma a 30 anni di reclusione. Le parole dei giudici, che parlano di “motivi umanamente comprensibili” dimostrano che la giustizia deve ancora fare passi avanti quando si parla di violenza di genere
La narrazione spesso stereotipata sui femminicidi ci ha convinti che si svolgano tutti allo stesso modo: un uomo possessivo che non accetta un rifiuto o una separazione e che uccide la propria partner o ex. Se è vero che la violenza di genere è un pattern, è anche vero che questo stereotipo spesso ci impedisce di riconoscere come femminicidio un caso che non si svolge esattamente come “da manuale”. Il problema è che in questo errore non cadono solo giornali e opinione pubblica, ma anche la giustizia. Salvatore Montefusco, che nel 2022 uccise con un fucile la moglie Gabriela Trandafir e la figlia di lei Renata a Castelfranco Emilia, è stato condannato a 30 anni di carcere. La sentenza è stata molto discussa non solo perché l’uomo ha evitato la pena dell’ergastolo, ma anche perché la corte ha citato “motivi umanamente comprensibili” che lo avrebbero spinto a commettere il duplice omicidio.
L’omicidio di Gabriela e Renata Trandafir
Il 13 giugno 2022 il 73enne Salvatore Montefusco ha sparato prima a Renata Trandafir, di 22 anni, poi alla moglie Gabriela, di 43. Montefusco, risposatosi in seconde nozze con Gabriela, una donna di origine romena, aveva avuto con lei un altro figlio, che ha assistito alla scena e che all’epoca dei fatti era minorenne. Anche se l’uomo era incensurato, le 213 pagine della sentenza ricostruiscono una situazione di grande conflittualità familiare, con ripetute denunce reciproche. Montefusco ha ucciso le due donne il giorno precedente alla sentenza di separazione, al culmine di un litigio provocato dalla richiesta di consegnare loro l’abitazione di famiglia.
La Corte d’Assise di Modena ha deciso di non comminare la pena dell’ergastolo chiesta dall’accusa per il duplice omicidio, riconoscendo le aggravanti del rapporto di coniugio e dell’aver commesso il fatto di fronte al figlio minore, ma non quelle della premeditazione, dei futili motivi e della crudeltà. Secondo i giudici, l’omicidio sarebbe avvenuto a causa della “condizione psicologica di profondo disagio, umiliazione e enorme frustrazione” provata dall’imputato per il comportamento delle sue familiari e la sua relazione con le vittime “non [è] mai stata caratterizzata dal predominio e dalla prevaricazione dell’uomo sulla donna”.
Giustizia e violenza di genere: cosa non torna nella decisione dei giudici
Anche se nei fatti cambia poco, visto anche che Montefusco ha più di 70 anni e quindi passerà il resto della sua vita in carcere, la decisione della Corte ha fatto molto discutere. Non si può negare che in casa ci fosse una situazione di grande conflittualità, confermata anche dalle testimonianze dell’altro figlio, ma siamo comunque di fronte a un uomo che ha ucciso a sangue freddo e con numerosi colpi sparati da un fucile a canne mozze due donne che, nel contesto familiare, erano in una situazione di innegabile disagio.
Nella sentenza si dice esplicitamente che le dinamiche dell’omicidio non sono quelle tipiche di un femminicidio, dal momento che i documenti della separazione attestano che Montefusco avesse accettato senza proteste le condizioni economiche richieste da Gabriela Talandir. Resta però il fatto che nel momento in cui la moglie ha voluto per sé la casa (che si sottolinea più volte aveva “costruito con le sue mani” “lavorando duramente”, a differenza delle due donne definite “mantenute”), lui l’ha uccisa insieme alla figlia, un gesto che non può in alcun modo suggerire un’alta considerazione per il ruolo delle donne nel contesto familiare, oltre che per la vita umana. È davvero difficile credere che un uomo che “accetta una separazione” con serenità possa commettere anche un gesto del genere, definito un “blackout emozionale ed esistenziale”.
Una cultura patriarcale che non arretra
Questa sentenza “rappresenta la cultura patriarcale che conosciamo bene anche nelle aule dei tribunali. Ancora si fa volutamente confusione tra conflitto e violenza, facendo arretrare il percorso per l’eliminazione della violenza maschile alle donne”, ha dichiarato la presidente della rete anti dei centri antiviolenza D.i.Re Antonella Veltri.
La cultura patriarcale vorrebbe, fra le altre cose, vittime perfette, che subiscono passivamente il clima imposto dal maltrattante aspettando la propria fine. A quanto ne sappiamo, Gabriela e Renata Trandafir non rispondevano a questo copione, ma ciò non le rende meno vittime della violenza maschile di altre donne che hanno reagito diversamente
Il caso Montefusco ha avuto una fortissima eco mediatica per l’eccezionalità delle parole scelte per spiegare i comportamenti dell’omicida, ma purtroppo non è l’unico caso del genere.
Ancora troppe donne che denunciano una violenza di genere si devono confrontare con un sistema giudiziario che si affida a stereotipi e pregiudizi sessisti
Nel 2021, l’Italia è stata anche condannata dalla Corte europea per i diritti dell’uomo per “affermazioni colpevolizzanti, moralizzatrici e veicolanti di stereotipi sessisti” in una sentenza di assoluzione di uno stupro di gruppo risalente a 6 anni prima. Per il resto della vita di Montefusco, una sentenza di 30 anni di carcere o di ergastolo non fa molta differenza. Ma se il ruolo della giustizia è anche quello di fissare uno standard morale per i propri cittadini, a livello simbolico questa decisione segna una macchia indelebile sulla difficile lotta che il nostro Paese sta affrontando contro la violenza di genere.
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link