C’è una classe operaia che ha difficoltà ad andare in paradiso. E da dodici anni e mezzo vive in un limbo, tra il timore di perdere il lavoro o anche di ammalarsi e la speranza di trovare stabilità e sicurezza. Un miraggio. Per i lavoratori dello stabilimento siderurgico di Taranto si riaffacciano antiche paure, che siano diretti, di Ilva in As o dell’appalto. La vendita al privato cosa comporterà? Lo Stato sarà in grado di fornire garanzie? Le inchieste della magistratura, le sentenze anche in ambito europeo, che tipo di riflesso avranno? E come reagirà quella parte della città che invoca chiusura e riconversione, considerando solo un’utopia il progetto di ambientalizzazione?
Le sensazioni
L’umore degli operai è nero come il carbone. «La situazione – spiega al Nuovo Quotidiano di Puglia Giovanni Casamassima, di 45 anni, assunto nel 2004, che si occupa della manutenzione elettrica dell’altoforno – non è certamente rosea. È dal 2012 che viviamo in uno stato di incertezza. A dire il vero già dal 2008, quando si è iniziato a fare ricorso agli ammortizzatori sociali. C’è sempre l’ansia degli esuberi. Se ne parlava con la gestione di ArcelorMittal e oggi ancora leggiamo dell’ipotesi di nuovi tagli. C’è la paura di dover rimanere fuori. Io sono sposato, ho due figli e un mutuo da pagare. La nostra famiglia, come quella di tanti colleghi, è mono reddito». Le aspettative? «Vogliamo – sottolinea l’operaio – lavorare tutti, in sicurezza e in un ambiente più sano e pulito e far coesistere l’ambiente, l’occupazione e la salute di chi ci lavora all’interno e della città. Per me è importante che lo Stato rimanga nell’azienda perché è forse l’unica garanzia che abbiamo».
Per Giuseppe De Giorgio, di 50 anni, in servizio all’Officina Carpenteria, da 30 anni in Ilva, «la vertenza, che si trascina dal 2012, è complicatissima. Alcune volte sembra che si risolva la situazione e invece non ne veniamo mai a capo. La questione vendita in questo momento per noi è chiaramente importantissima perché potrebbe dare una speranza a tutti i lavoratori. È difficile mantenere le famiglie con i salari decurtati dalla cassa integrazione. Poi vorremmo capire se chi l’acquisisce è una società seria e non come la gestione Mittal che ha portato la fabbrica al disastro. Ci sono impianti che cadono a pezzi». Oltre alla «preoccupazione inerente la stabilità economica ci sono i timori – non nasconde il lavoratore – che riguardano l’aspetto sanitario e della salute. Uno dei temi da affrontare è la presenza di amianto all’interno dello stabilimento che doveva essere bonificato prima nel 2018, poi slittato al 2023 e adesso nel 2025». Che Natale è stato questo, considerata la situazione di incertezza e precarietà dell’attività lavorativa? «È stato – replica De Giorgio – un Natale come gli ultimi dodici. Non riusciamo più a prendere una tredicesima per intero. Se fai tanta cassa integrazione con quei soldi riesci a stento a pagare i debiti che si accumulano durante l’anno e non ti puoi permettere di fare piccoli regali ai figli. Io ne ho tre. Così diventa tutto complicato».
Fabio Cocco, 51 anni, con moglie e tre figli, lavoratore del reparto Acciaieria 2, teme che si possano ripetere «gli errori del passato. Siamo rimasti scottati per quanto avvenuto dopo la cessione a Mittal con una gestione che si è rivelata fallimentare. Se lo Stato resta fuori e lascia tutto nelle mani del privato le incognite aumentano. Dicono che vogliono blindare l’accordo con una serie di garanzie, ma sarà così? Sappiamo che potrebbero esserci degli esuberi». «Io – afferma il lavoratore – ho sempre detto di non essere per una fabbrica a tutti i costi e a prescindere. Il governo vuole mantenerla in piedi ma i piani industriali e ambientali dovranno essere ancorati a qualcosa di solido e seguire le linee Viias, cioè la Valutazione integrata di impatto ambientale e sanitario. Non va tenuta aperta solo per dare il pane ancora a qualche migliaio di operai».
C’è una platea di lavoratori relegata ai margini, da oltre sei anni al confino. Sono gli operai rimasti alle dipendenze di Ilva in As, dal 2018 in cassa integrazione straordinaria a zero ore. Vivono di assistenzialismo. «In base all’accordo del 6 settembre 2018 – ricorda Stefania De Virgilis, 49 anni, sposata, con due figli di 12 e 14 anni, operaia dell’area staff – dovremmo rientrare in azienda anche noi. Ma non possiamo fidarci. Ci siamo già passati e non possiamo essere tranquilli. Gli anni passano, l’età avanza e siamo preoccupati per il nostro futuro. Vediamo se la nuova proprietà ci vorrà». Stefania ricorda di essere entrata in Ilva «nel gennaio del 1997. Avevo appena compiuto 21 anni. Lì dentro non assumono donne. Sono stata assunta perché ho preso il posto del mio papà che lavorava al Movimento ferroviario e purtroppo aveva un tumore». Nel 2018, con l’avvento di ArcelorMittal, non tutti i dipendenti furono assunti. Venne formata una graduatoria. Chi dentro, chi fuori. Come Stefania De Virgilis. «Sono oltre sei anni – prosegue l’operaia di Ilva in As – che siamo in cassa integrazione. Non è una cosa semplice a livello psicologico, perché senti un senso di vuoto e vorresti riempire la tua giornata, e chiaramente economico».
Vittorio Casulli, di 48 anni, anche lui lavoratore di Ilva in As, con moglie e tre figli, vede il «futuro sempre più incerto rispetto a quando fu firmato l’accordo del 2018. Ci dissero che dovevamo rientrare dopo un po’ di anni ma le cose sono sempre peggiorate. In molti hanno perso le case non potendo pagare più i mutui, c’è chi ha divorziato perché la famiglia non ha più retto. Io sono mono reddito e ho tre figli». Casulli fu assunto dall’Ilva nel 2001. «Ho lavorato per dieci anni alle batterie dell’altoforno e gli ultimi otto anni in Officina elettrica, dove ci fu nel 2018 il taglio del 50 per cento del personale. Cosa ci aspettiamo dalla vendita? Il sindacato chiede chiaramente la piena occupazione, ma un imprenditore sa che per assumere tutti deve avere almeno una produzione di 8 milioni. Cosa che credo non avverrà mai. E se intende realizzate uno stabilimento green ci vorrà del tempo. La paura di perdere il posto di lavoro – ammette candidamente l’operaio – c’è».
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