“Il nero ha tutto”. Alla macchina tessile – sostiene Mademoiselle Chanel negli anni Dieci – non occorrono decorazioni stupefacenti, addobbi “da grandi torte” né “smancerie”. Poco incline (per sua stessa ammissione) all’ago e al filo, Mademoiselle Chanel opera “in togliere”. Sua è l’equazione del Minimalismo: “geometria + monocromia”. Suo il culto di forme semplici e spoglie. Sua la langue che negli anni Ottanta verrà introiettata da Giorgio Armani e Gianfranco Ferrè, laddove il nero e il greige acquisiranno i contorni del look dirigenziale o “power dressing”. Suo, infine, quell’opus magnum che nel 1926 prende il nome di little black dress o petite robe noir, il celebre tubino nero illustrato da Douglas Polland a manifesto d’eccellenza dello stile chaneliano.
Alla medesima generazione creativa apparteneva il pittore Kazimir Malevič, maestro del Suprematismo russo, una corrente fondata sulla celebrazione delle forme essenziali, purissime e “supreme”, di cui l’opera Quadrato nero su fondo bianco (1915) offre un’ottima interpretazione. Ed ecco che con Chanel le forme maleviciane sbocciano dalla tela e passeggiano, in forma ora tridimensionale, sul lungomare della Côte Fleurie. All’epoca Harper’s Bazaar paragonò il little black dress al modello T della nuova macchina Ford, centrando così la sintonia culturale fra Haute Couture e tecnologia: i “tempi moderni”, con il loro culto del funzionalismo, si votano all’allure del nero. La donna scende dal piedistallo di bella statuina colorata e fa sport in un costume Chanel orlato da un perimetro di bande geometriche, dirige aziende in tailleur e slingback, balla il Charleston senza il supporto di fronzoli. Difatti, non c’è drappeggio nel tubino, né colore. Non serve: come detto in incipit, “il nero ha tutto”.
Naturalmente, vi è una storia del nero prima della rivoluzione chaneliana e un seguito – che non è mai finito. La storia riguarda certo la moda – ma non solo. Il nero è uno di quei colori che contengono moltitudini. Nell’arte viene definito “acromatico”: privo di una tonalità dominante, le contiene tutte in egual misura. Il che ci ha portato spesso, ed erroneamente, a considerarlo “neutro”. Un tono base su cui far risaltare altri colori. Eppure, culturalmente, il nero è tutt’altro che neutro: nella Bibbia è il colore del lutto; nella religione cristiana è il colore dell’umiltà, per questo indossato dai monaci; nel Medioevo era il colore del mistero, delle streghe e – naturalmente – della loro “magia nera”.
A inizio Ottocento George Bryan Brummell, il “primo dandy inglese”, promosse nella moda maschile uno stile sobrio ed elegante, opponendosi agli abiti sgargianti delle corti. Fra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento la Beat Generation fece del nero la sua uniforme cromatica: i beatnik indossavano jeans, maglioni a collo alto, baschi e occhiali spessi total black come pretesta silenziosa verso il conformismo pop della cultura dominante. Nel 1971 il cantautore statunitense Johnny Cash pubblicò il brano The Man in Black – titolo che poi assunse come soprannome. Citando il testo della canzone “Ce la stiamo cavando alla grande, suppongo, con le nostre auto fulminee e gli abiti eleganti / Ma per ricordarci di quelli che restano indietro, là davanti ci dovrebbe essere un uomo in nero”. Il man in black di cui parla Cash è una figura oppressa, vittima di ingiustizie sociali e del consumismo dilagante. II nero dell’armadio di Cash rappresenta lutto, solidarietà e protesta. Ribelle e anticonformista è anche il nero del Black Panther Party, quello dei manifestanti per la democrazia di Hong Kong e quello delle avanguardie della moda giapponese.
Per Rei Kawakubo di Comme des Garçons la blackness degli abiti è tesa a sfregiare ogni minima traccia di bellezza canonica. I suoi tessuti, molli, pervasi da tagli e grinze, fagocitano l’interezza della silhouette e dei colori. Al bando motivi e fantasie: il movimento è dato dal rigurgito della materia. Per Yohji Yamamoto “Il nero è modesto e arrogante allo stesso tempo. Il nero è pigro e facile, ma misterioso. Ma soprattutto, il nero dice questo: non ti disturbo, non disturbarmi” (da un’intervista al New York Times). Il filo conduttore della sua estetica è debellare lo strato colloso degli stereotipi del pensiero, prendere le distanze dall’abito accademico, dalla torre d’avorio della “moda per la moda”. E lo fa traumatizzando gli abiti a suon di buchi neri, fino a ritrovare la strada di quei valori primari di maleviciana memoria. Yamamoto fa uso di forme geometriche e di un profluvio di neri, ma non per questo possiamo etichettarlo come “minimalista”. A differenza di Mademoiselle Chanel, Armani, Ferré e Jil Sander, la sua non è un’ armonia silenziosa. Piuttosto – come il seguace Rick Owens – la sua è una collera emotiva: si veda, a tal proposito, il titolo della sua autobiografia, My Dear Bomb (2010). Tali sono le moltitudini del nero.
Da una parte c’è l’eleganza del tubino nero Givenchy indossato da Audrey Hepburn in Colazione da Tiffany (1961), dall’altra lo scandalo nero del ritratto Madame X di John Singer Sargent (1884). Da una parte, il nero delle streghe di Macbeth, dall’altra, quello dei ninja e della rock star nella cultura popolare. Un non-colore associato all’eleganza, al fascino cupo e ribelle della classe intellettuale newyorkese, alle sale dei bottoni nei grattacieli dell’alta moda, al potere, alla seduzione e all’erotismo. Il pittore Pierre-Auguste Renoir lo definì “la regina di tutti i colori”. I direttori creativi delle Maison dichiarano il marrone, il viola o il rosso come colori di tendenza, ma accolgono i plausi di fine sfilata in completi total balck. L’allure del nero rimane, insomma, un classico – come il little black dress, d’altronde. Ma neutrale? Quasi mai.
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