«Le mie notti in bianco per un posto alla Scala»

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Marco Gialloreti, aquilano, 52 anni, è l’esempio di come si possano intrecciare passioni, esperienze e amore per il territorio. La sua storia ricorda l’importanza di credere nelle proprie passioni e non dimenticare mai le radici.

Come nasce la sua passione per la lirica?

«Tramite l’avv. Nino Carloni (l’Avvocato della Musica) che per la mia famiglia era “uno di casa” e la sua Società Aquilana dei Concerti “Barattelli”, è stata la base della mia passione e cultura musicale. Ero un bambino molto irrequieto e i miei genitori mi portavano a sentire i concerti della “Barattelli” solo perché lì, stranamente, mi tranquilizzavo».

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Ne ha capito mai il perché?

«Mi piaceva tanto ascoltare la musica e i miei genitori erano felicissimi perché finalmente si “riposavano”».

E l’opera?

«Ero affascinato dalla musica classica: strumentale, sinfonica e lirica. La possibilità di poter ascoltare varie linee melodiche che si “intrecciano” l’una con l’altra o l’una contro e in opposizione all’altra – un po’ come la chimica nella gastronomia – è il bello della musica sinfonica e dell’opera, quest’ultima con i concertati: la mia grande passione, primi su tutti Mozart e Rossini, con quella sovrapposizione contrappuntistica di voci, mi hanno, da sempre, affascinato».

Essere loggionista alla Scala è un impegno non comune.

«Essere loggionista alla Scala non è un titolo. Sei loggionista se sei disposto a coltivare la tua passione a ogni costo, compreso le file di ore in piedi per trovare un biglietto. Il loggionista ama la musica, il teatro, ama relazionarsi con persone che sanno o che ne sanno più di lui, che possano essere fonte di arricchimento dei suoi interessi, delle sue passioni. Il loggionista non va in platea nemmeno se gli offrono il biglietto».

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Prima della Scala, nel suo racconto-diario, su Fb, in molti, tra cui anche alcune star, avevano confidenza con lei. Persino le soprano oggi novantenni.

«Sì, alla prima della Scala, ho rincontrato tutti i più grandi cantanti della mia giovinezza: da Placido Domingo a José Carreras alla grandissima soprano Rajna Kabaivanska, la regina. Novant’anni portati benissimo, una donna bellissima ancora oggi. Le ho detto che la vidi (quasi quarant’anni fa) nella Traviata con Renato Bruson proprio qui alla Scala. Mi ha abbracciato, come si vede nel selfie, e ci siamo emozionati entrambi. Ho richiesto, come facevo da bambino, il loro autografo facendomi i selfie con tutti».

E i suoi sono commenti da grande esperto. Ha anche contestato le critiche giornalistiche.

«Ho contestato le fesserie che hanno scritto sui giornali sul fatto che sarebbe stata contestata la soprano Anna Jur’evna Netrebko dal pubblico della Scala. Ma quando mai! Ma se il pubblico della Scala la ama fino all’inverosimile! L’hanno acclamata, ha avuto più uscite di tutti al termine degli atti, 15 minuti di applausi solo per lei. Io ho vissuto tutto. La Scala si vive. Dal loggione si vive l’evento, almeno dal punto di vista culturale, molto di più della “sciccosa” platea».

Cosa è successo allora?

«Mi sembra più che evidente che quei buu (uno, o al massimo tre su 2.000 persone) siano venuti dall’interno del Teatro alla Scala. Qualcuno vuol far fuori Netrebko approfittando del suo status (“debole”) di cittadina russa».

Parallelamente, ha avuto una carriera come rugbysta.

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«Carriera mi sembra esagerato. Nelle giovanili del Cus L’Aquila, dell’epoca vincemmo il titolo italiano grazie e soprattutto all’allenatore Terenzio De Benedictis, persona coraggiosa. Con grande spirito di iniziativa riuscì, con pochissime risorse e mezzi, a metterci in contatto con realtà tecnicamente lontane anni luce dal nostro campanile, prima del Sei Nazioni. A Tolosa contro i pari età Campioni di Francia perdemmo di un solo punto, a tempo scaduto e per colpa dell’arbitro. L’anno dopo vincemmo lo scudetto».

Lirica e rugby due mondi lontani.

«Sembrano lontani, ma in realtà hanno molto in comune. Il rugby mi ha insegnato il valore del sacrificio, della squadra e del rispetto per gli altri, mentre la musica è la mia fonte di ispirazione e riflessione. Entrambi richiedono impegno e disciplina. Sul campo da rugby impari a superare i tuoi limiti fisici, mentre con la musica entri in contatto con le emozioni più profonde».

Oggi, lei è titolare di una enoteca bistrot a Tagliacozzo. Come è nata l’idea?

«Dopo aver lavorato parecchio nel campo degli audiovisivi, subito dopo il sisma che ha distrutto la mia città, cercavo con la mia compagna Eleonora un modo per restare attivo e al contempo creare qualcosa di mio. Tagliacozzo, con la sua atmosfera storica e accogliente, mi è sembrata il luogo perfetto: una “piccola L’Aquila”. L’enoteca è diventata un punto d’incontro per amici, appassionati di musica e sportivi. Mi piace pensare che sia più di un locale: è uno spazio dove le persone possono condividere momenti speciali».

Come ha integrato le sue passioni nel suo lavoro al bistrot?

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«Organizzo serate a tema, come eventi dedicati alla musica, anche alla lirica o incontri che riguardano il rugby, in occasione del Sei Nazioni. Ho anche decorato il locale con elementi che richiamano questi mondi: spartiti d’opera e foto storiche del rugby».

L’enoteca si chiama “Ada Nurzia”. Come mai?

«Mia nonna. Una Nurzia. Un pezzo di storia dell’Aquila»

Pensa di organizzare eventi più grandi, come festival o iniziative culturali?

«Sì, mi piacerebbe creare un evento che unisca musica e sport, magari coinvolgendo giovani talenti locali. Credo che queste esperienze possano ispirare le nuove generazioni e far capire che la cultura e lo sport possono convivere e arricchire la vita».

Ultima domanda: quali sono i suoi prossimi progetti?

«Continuare a far crescere il mio locale e magari trasformarlo in un vero centro culturale per Tagliacozzo. E non smettere mai di frequentare il loggione della Scala e le partite dell’Italia di rugby, perché lì mi sento davvero a casa».

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