La migrazione delle persone, ieri come oggi, è strettamente legata al tema della povertà. Ma anche a quello della guerra e degli eventi naturali calamitosi. A Bressanone nei giorni scorsi si è svolto un workshop internazionale per un confronto tra esperti ed esperte sulla questione in Europa tra la prima età moderna e il XIX secolo. L’evento è stato organizzato dal Centro di Storia regionale, in collaborazione con l’Università di Trento e la Fondazione Bruno Kessler. Per UniTrento è intervenuta Rosa Salzberg, docente di Storia moderna al Dipartimento di Sociologia e ricerca sociale, co-organizzatrice dell’evento. Tra i suoi interessi di ricerca proprio la storia delle migrazioni e della mobilità nell’età moderna.
Se mettessimo a confronto un quadro del ‘500 raffigurante una persona migrante, con la foto di chi oggi vive in strada perché senza un posto dove stare, probabilmente quello che troveremmo di diverso sarebbe l’abbigliamento, forse l’architettura dei luoghi. Ma l’espressione sui volti e lo sguardo di chi ha dovuto lasciare la propria famiglia o la propria terra perché costretto da condizioni contingenti e da cause di forze maggiori sarebbero gli stessi. Negli ultimi anni gli studi sul fenomeno migratorio hanno conosciuto un rinnovato interesse. Storici e storiche indagano da nuove prospettive questo argomento. Raccontando le difficoltà lavorativa di chi si spostava forzatamente, l’esilio politico, gli allontanamenti obbligati. Ricostruendo le vie di comunicazione e le infrastrutture ricettive. Lo fanno anche attraverso carte di viaggio, documenti di identificazione personale, passaporti e licenze concesse dalle autorità per poter chiedere la carità. Un lavoro che restituisce voce e dignità alle storie di coloro che hanno trovato nello spostamento uno strumento di riscatto e di fuga da un destino nefasto. E che conferma come molte città non avrebbero la ricchezza, la bellezza e la grandezza che hanno se non avessero accolto migranti. «È il caso di Venezia per esempio. Molti artisti e scrittori importanti che hanno dato vita al Rinascimento veneziano erano stranieri, a volte poveri. La stabilità era un privilegio, quasi un lusso», sottolinea Rosa Salzberg. Dalle ricerche che sono state presentate nel corso del convegno è emerso che nel passato povertà e mobilità erano fortemente intrecciate tra loro. Molte persone erano costrette a partire da casa, in cerca di lavoro, oppure a causa di guerre, carestie, terremoti o inondazioni. E finivano per vivere come mendicanti. Esattamente come ora. Anche se nell’immaginario collettivo l’idea è che un tempo gli individui si spostassero meno. «Questo non è vero – precisa la docente – c’erano grandi flussi di uomini e donne che viaggiavano da un posto all’altro. E le motivazioni di ieri sono quelle che ritroviamo ai giorni nostri. Il bisogno o il desiderio di cercare una vita migliore partendo da paesi, città o campagne molto povere. Nei miei studi l’immagine del tipico migrante del Rinascimento in Italia è raffigurata dal personaggio della commedia dell’arte di Zanni, che diventa poi la maschera di Arlecchino. Un povero bergamasco che vive in montagna e che, senza cibo né lavoro, si trasferisce a Venezia. Non solo. Ci sono state molte persone rifugiate arrivate a Venezia dal Mediterraneo, dalle isole greche, spinte dalla guerra con l’impero Ottomano, o perché perseguitate a causa della loro religione». La mobilità diventa così una strategia di sopravvivenza. Se le ragioni erano più o meno le stesse del nostro tempo, si ritrovano analogie anche nel modo di gestire la migrazione da parte delle istituzioni. «C’erano a quel tempo alcune strutture di accoglienza. Lo Stato veneziano aveva cercato nei momenti di crisi di costruire rifugi temporanei. Questo era un modo per monitorare la diffusione di infezioni come la peste. Ed era anche una forma di controllo sociale e di repressione di questi individui spesso visti con sospetto e ostilità. Erano ritenute contagiose non solo per le malattie ma anche per le loro idee». Nel pietoso bagaglio che viandanti, migranti e indigenti portavano in spalla, ciò che pesava di più erano proprio i pregiudizi. Ma con quale sensibilità e quale prospettiva oggi si studia il passato? «Il dibattito sulla migrazione – risponde la docente – è e diventerà sempre di più un fattore chiave per tante società. Una delle cose che mi ha colpito molto al convegno è stata la continuità nel modo di vedere e di parlare di genti povere e forestiere, e le paure che suscitavano nella società. Tutto questo sembra non essere cambiato dal Cinquecento ad oggi. Le preoccupazioni e le ansie che suscitavano allora mi ricordano quelle con le quali si parla dei migranti che arrivano con le barche in Europa. Anche se le rotte partono da più lontano. Noi studiosi stiamo cercando di capire meglio le radici di questi fenomeni e di dare una prospettiva storica più lunga. Per ricordarci che queste crisi non sono una novità, e dobbiamo trovare un modo per affrontarle». Certo, non mancavano tentativi di redimere chi si trovava in miseria. Esempi sono le case del lavoro e quelle di correzione attive in Inghilterra e in Europa tra il Seicento e il Settecento, alcuni enti religiosi caritatevoli. O ancora istituzioni create dal basso da migranti stessi per aiutare altri come loro. E usanze locali di ospitalità e umanità che andavano oltre la legge scritta. «L’ Islanda, per esempio, nel Settecento aveva una popolazione di appena cinquantamila. Ufficialmente vigeva la regola di non dare accoglienza a mendicanti e vagabondi che cercavano aiuto nelle case dei contadini. In pratica però il costume locale era di offrire un posto a chi ne aveva bisogno per almeno tre notti». Dal punto di vista scientifico, qual è il valore della migrazione? «È il motore del cambiamento delle società. Della creatività, dell’energia, della dinamicità», così Salzberg.
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